L’evoluzione, a volte, compie dei repentini balzi in
avanti: ce lo ricordava la voce di Patrick Stewart/Charles Xavier nel
primissimo X-Men cinematografico del
2000. E, da allora, il franchise
cine-televisivo dei mutanti Marvel-Fox è proceduto, chissà quanto casualmente,
proprio per salti in avanti, proiezioni oltre se stesso e i propri confini
cronologici, stilistici, mediatici. Un ecosistema narrativo che in quasi
vent’anni ha avuto i suoi scivoloni, rallentamenti e contraddizioni anche
pesanti; ma che, nei suoi capitoli più riusciti, ci ha regalato non solo alcune
delle più felici trasposizioni dal linguaggio fumettistico a quello filmico, ma
alcune delle ridefinizioni più stimolanti del rapporto tra codici di genere e
sperimentazione creativa, tra industria d’intrattenimento e poetica
riconoscibile.
Come si colloca in questo panorama la serie tv The Gifted, giunta a metà
della seconda stagione (fino all’episodio 2x07 nella programmazione italiana, e
al 2x09 in quella statunitense)? Dalla parte di un prodotto tutt’altro che
rivoluzionario, anzi per certi versi quasi retrò
nel magmatico contesto della serialità odierna, e tuttavia capace, almeno
finora, di articolarsi e rilanciarsi in una ricchezza e profondità tematica
crescenti, in grado di attingere ai motivi più stimolanti del materiale
fumettistico di partenza. Al punto da poter essere considerata, allo stato
attuale, il prodotto filmico (seriale e non) più in sintonia con i fondamentali
della mitologia mutante, tale da meritare attenzione e apprezzamento sia dai
fan storici che dai novizi.
Ripercorriamo allora brevemente il cammino della
serie creata da Matt Nix, le sue basi, i suoi tentennamenti, i suoi salti in avanti
e il suo provvisorio punto d’arrivo. Il pilot
della prima stagione, diretto non a caso dal pioniere dei mutanti sullo schermo
Bryan Singer, riassumeva già tutte le caratteristiche non solo del primo ciclo
di puntate, ma della lettura che il regista de I Soliti Sospetti aveva già fornito del fumetto Marvel con i primi
film: un racconto per molti aspetti lontano da un immaginario supereroistico
convenzionale, piuttosto un ibrido di science-fiction
d’azione, dramma (non solo) giovanile e polemica socio-politica.
I mutanti di Singer & co. (come, d’altronde, i mutanti di carta e inchiostro almeno dalle storie di Chris Claremont in poi) sono, prima che (super)eroi, una nuova specie di esseri umani, diversa dall’homo sapiens, in virtù del famigerato gene X latore di poteri (o comunque “mutazioni”) al di là della norma. Ciò rende però (e perciò) i portatori del differente genoma oggetto di pregiudizi e ostilità da parte dei comuni esseri umani, i singoli come la società. I mutanti, dunque, sono prima di tutto emblema delle minoranze reali e realmente soggette a discriminazioni e persecuzioni per il colore della pelle, l’etnia o l’orientamento sessuale. Come il primo X-Men cinematografico si apriva con le immagini plumbee della deportazione degli ebrei nella Polonia occupata dai nazisti, così The Gifted si apre con la sequenza molto poco “eroica” di una giovane donna spaventata, braccata dalla polizia per abilità paranormali che sembrano più uno stigma di odio e ghettizzazione che un fattore di positiva eccezionalità.
I mutanti di Singer & co. (come, d’altronde, i mutanti di carta e inchiostro almeno dalle storie di Chris Claremont in poi) sono, prima che (super)eroi, una nuova specie di esseri umani, diversa dall’homo sapiens, in virtù del famigerato gene X latore di poteri (o comunque “mutazioni”) al di là della norma. Ciò rende però (e perciò) i portatori del differente genoma oggetto di pregiudizi e ostilità da parte dei comuni esseri umani, i singoli come la società. I mutanti, dunque, sono prima di tutto emblema delle minoranze reali e realmente soggette a discriminazioni e persecuzioni per il colore della pelle, l’etnia o l’orientamento sessuale. Come il primo X-Men cinematografico si apriva con le immagini plumbee della deportazione degli ebrei nella Polonia occupata dai nazisti, così The Gifted si apre con la sequenza molto poco “eroica” di una giovane donna spaventata, braccata dalla polizia per abilità paranormali che sembrano più uno stigma di odio e ghettizzazione che un fattore di positiva eccezionalità.
Da qui la serie ha riprodotto e portato talvolta
alle estreme conseguenze questa lettura degli eroi (e antieroi) mutanti: i
protagonisti non sono più nemmeno gli X-Men, ma un gruppo di mutanti definiti
sovente (anche qui, con inevitabili rimandi polemici all’attualità)
«clandestini», perennemente in abiti civili e impegnati non tanto a salvare il
mondo ma a preservare se stessi e i propri simili dalla task-force governativa
xenofoba dei “Servizi Sentinel”. Significativamente al centro dei conflitti
della serie abbiamo la famiglia Strucker, papà e mamma americani perbene e
perbenisti che devono rimettere in discussione se stessi e i loro preconcetti
allo scoprire che entrambi i figli adolescenti sono benedetti-maledetti dal temuto gene mutante. Una dinamica, quest’ultima, che permette di sviluppare un
ulteriore e ancora più antico (risalente addirittura ai primissimi fumetti di
Stan Lee e Jack Kirby) potenziale metaforico del mondo degli X-Men: quello che
vuole i mutanti allegorie degli adolescenti alle prese con i cambiamenti del
proprio corpo e con un mondo esterno che non li comprende e non vuole (più)
farsi comprendere da loro. Un risvolto che i primi film esprimevano soprattutto
attraverso i personaggi di Rogue/Anna Paquin e di Bobby/Shawn Ashmore, e che
però The Gifted può permettersi di
articolare nei tempi più lunghi e graduali della serialità: prendendosi il
giusto tempo per mostrarci (anche) la difficile maturazione tanto dei due
giovanissimi Lauren (Natalie Alyn Lind) e Andy (Percy Hynes White) quanto dei
genitori Reed (Stephen Moyer) e Caitlin (Amy Acker), nella problematica
ridiscussione del rapporto tra gli uni e gli altri.
Se dunque le basi erano fin da subito interessanti,
nel prosieguo della prima stagione la serie Marvel-Fox ha dimostrato qualche
difficoltà a ingranare la marcia, rischiando di incartarsi nella ripetizione,
di episodio in episodio, dello schema narrativo azione-fuga con relativi
dilemmi etici: dove più volte i “nostri” vogliono boicottare le manovre dei
Servizi Sentinel o recuperare qualche compagno in difficoltà e rientrare sani e salvi alla base senza però
oltrepassare mai la linea che separa canonicamente l’eroe dall’antieroe (l’omicidio
degli antagonisti). Si aggiunge una regia molto più anonima e tradizionalmente
“televisiva” rispetto ai più recenti e dirompenti prodotti seriali sui
supereroi, come il Daredevil di
Netflix e, soprattutto, il Legion della
stessa Fox. Proprio la serie di Noah Hawley su David Haller diventa un’inevitabile
pietra di paragone per il riferimento, sia pur libero, al medesimo universo
narrativo, quello dei mutanti. Curiosamente, il ticket Marvel Television-Fox ha
affiancato un prodotto formalmente convenzionale come The Gifted a una bomba di sperimentazioni programmaticamente e
spregiudicatamente disorientante come Legion.
Il rischio era di penalizzare ulteriormente la serie di Matt Nix mettendone
ancora più in risalto la minore audacia nel giocare non solo con l’immaginario
di partenza ma soprattutto con le strutture e le soluzioni del linguaggio
seriale. Così, fortunatamente, non è stato.
Anche The
Gifted, infatti, ha saputo compiere il suo piccolo balzo evolutivo, ha
saputo rilanciarsi e ampliare il suo raggio d’azione in itinere, rimanendo
fedele alle premesse che si era data ma sfruttandole nel loro pieno potenziale.
Lo spartiacque simbolico è stato senz’altro l’episodio 10 della prima stagione,
che tra le altre cose ha introdotto i terroristi mutanti della Cerchia Interna, pronti a
rispondere alle aggressioni dell’umanità intollerante con una violenza pari a
quella degli oppressori. Viene perciò ripreso, e da qui in poi sviluppato, lo
schema che ha fatto la fortuna di molte storie a fumetti e dei migliori film
sul mondo degli X-Men: quello formato da tre fondamentali poli etici e
drammatici (Xavier, Magneto e gli umani, nella saga madre), con tutte le relative
sfumature intermedie e soprattutto con i mutanti (e non più solo gli umani)
finalmente costretti a schierarsi. Dove pertanto l’azione e la tensione si
giocano non solo nella dicotomia tra perseguitati e persecutori, ma tra diverse
ipotesi di risposta alla persecuzione. Ciò ha permesso alla caratterizzazione
di alcuni protagonisti della serie di decollare, in primis quella di Lorna (Emma
Dumont), arricchita tra l’altro da quello che è finora l’aggancio più diretto e
interessante con la continuity della
saga cinematografica.
La seconda stagione, poi, non ha solo mantenuto le
promesse insite nella tragica e apertissima conclusione della prima, ma le ha
ulteriormente sviluppate in un gioco di tensioni e contrapposizioni che ha
addirittura superato la formula dei migliori film del franchise. Dilaniati dalla scissione tra eroi idealisti e antieroi
crudelmente pragmatici, i protagonisti mutanti non agiscono più compattamente
in gruppo, ma sono sparpagliati in una miriade di scenari e sottotrame ora
paralleli ora collidenti in confronti e scontri: cosa che ha permesso ai nuovi
episodi non solo di intensificare il ritmo e approfondire i personaggi, ma
anche, e soprattutto, di rendere ancora più sfaccettata la dialettica
(drammatica, etica, sociopolitica) alla base dell’immaginario mutante tutto,
quella tra i diversi fenomeni di intolleranza e le possibili reazioni ad essi.
Ai punti di vista già messi in campo dalla prima
stagione (mutanti “pacifisti” e “guerrafondai”, umani intolleranti e umani
aperti all’accettazione e alla cooperazione con i “diversi”) si aggiungono
ulteriori tasselli, ricavati a partire da brani dei fumetti che non erano ancora
stati valorizzati dai film. Abbiamo perciò i Morlock, mutanti che tra la convivenza
con gli umani e il conflitto aperto scelgono l’isolamento in una sotterranea corte dei miracoli, contraddittoria nel suo duplice integralismo (l’assoluta
segregazione dal mondo “umano” di superficie e l’obbligo, per gli aderenti, di
incidersi sulla carne i segni della propria identità genetica).
Abbiamo i Purificatori, gruppi d’odio armati (tratti dal celeberrimo graphic novel Dio ama, l’uomo uccide) che costituiscono un ulteriore volto (e degenerazione) del razzismo umano dopo quello di matrice (più o meno) “istituzionale” esplorato nella prima stagione. Sono (e, presumibilmente, saranno sempre più) proprio i Purificatori i veri antagonisti della nuova stagione, oltre che il più inquietante riflesso della e per l’attualità reale nella fiction: sequenze come quella del blitz all’ospedale dove si assistono i mutanti in fuga (episodio 2x05) sembrano già una declinazione distopica delle sempre più allarmanti pulsioni xenofobe ed eversive che si agitano (davvero) nella società occidentale. Gli ultimi episodi trasmessi negli USA ci hanno mostrato, per giunta, un ulteriore e più ipocrita volto dell’intolleranza, quello della cura volontaria contro il gene mutante, ripreso dal memorabile ciclo a fumetti di Joss Whedon e John Cassaday già al centro del purtroppo poco riuscito X-Men: Conflitto Finale (2006).
Abbiamo i Purificatori, gruppi d’odio armati (tratti dal celeberrimo graphic novel Dio ama, l’uomo uccide) che costituiscono un ulteriore volto (e degenerazione) del razzismo umano dopo quello di matrice (più o meno) “istituzionale” esplorato nella prima stagione. Sono (e, presumibilmente, saranno sempre più) proprio i Purificatori i veri antagonisti della nuova stagione, oltre che il più inquietante riflesso della e per l’attualità reale nella fiction: sequenze come quella del blitz all’ospedale dove si assistono i mutanti in fuga (episodio 2x05) sembrano già una declinazione distopica delle sempre più allarmanti pulsioni xenofobe ed eversive che si agitano (davvero) nella società occidentale. Gli ultimi episodi trasmessi negli USA ci hanno mostrato, per giunta, un ulteriore e più ipocrita volto dell’intolleranza, quello della cura volontaria contro il gene mutante, ripreso dal memorabile ciclo a fumetti di Joss Whedon e John Cassaday già al centro del purtroppo poco riuscito X-Men: Conflitto Finale (2006).
In questa pluralità di poli, ciascuno esplorato
nelle sue ragioni o comunque nelle sue articolazioni interne, i personaggi si
trovano presi nel mezzo, costretti a scegliere e a passare tra i vari
schieramenti. Ne guadagnano non solo i protagonisti in spessore, ma la stesso
statuto del confine (basilare in ogni epopea cine-fumettistica che si rispetti)
tra Bene e Male in complessità: l’etica cristallina dei mutanti clandestini
“buoni” è sempre più compromessa e messa alle strette di puntata in puntata, di
pari passo con l’oscurarsi dell’utopia di una convivenza armonica tra le
specie; ed è difficile considerare fino in fondo gli adepti della Cerchia
Interna come “cattivi” (proprio come accadeva per Magneto e la sua
Confraternita) o i Morlock come dei fanatici senza alcun argomento a proprio
favore. Così come tragicamente sfaccettati risultano i singoli attori della
contesa, e in particolare, emblematicamente, i villain (veri o presunti): si pensi all’agente Turner (Coby Bell) o
alla leader della Cerchia Interna Reeva (Grace Byers), resi sempre più
problematici anche attraverso l’inserimento di flashback ad hoc. Ma si pensi, anche, a personaggi secondari come Rebecca
(Anjelica Bette Fellini), scheggia impazzita che da un lato mette in crisi,
scavalcandola in crudeltà, la stessa fazione della Cerchia Interna, dall’altro
offre un’ulteriore e inaspettata declinazione del rapporto tematico tra mutante
e disagio giovanile.
Il risultato d’insieme è un prodotto
d’intrattenimento intelligente che, valorizzando gli spunti offerti dal
materiale di partenza, riesce a nutrirsi non solo dei generi alla base
dell’immaginario fumettistico, ma anche (e soprattutto) delle inquietudini e
divisioni che agitano in questo momento storico il tessuto socio-politico (non
solo) statunitense. Un prodotto seriale che continua (e presumibilmente
continuerà) a non osare sul piano stilistico come insiste a fare il suo antitetico
gemello mutante Legion, ma che, in
compenso, offre proprio ciò che (per scelta) latita nella serie di Noah Hawley:
quel discorso sui mutanti come allegoria delle minoranze e della sempre più
difficile scommessa per l’integrazione in una società dilaniata (oggi più che
mai) da pregiudizi vecchi e nuovi. Un discorso che Legion per ora ha scelto di tenere da parte, preferendo
legittimamente esplorare i labirinti della mente umana
e dei reami al confine tra realtà e illusione.
Emanuele Bucci
Nessun commento:
Posta un commento