Da quello che anche in questo
istante si sta scrivendo, dicendo, commentando, attorno all’ultimo progetto di
Alfonso Cuaròn, Roma viene
costantemente presentato come un progetto splendido ma al tempo stesso
straripante, felicemente eccessivo nella sua natura profonda e per questo,
forse, prima che di difficile catalogazione, di quasi impossibile approccio,
proprio perché qualsiasi confronto con il film rischierebbe di risultare
incompleto, incapace, cioè, di abbracciare la totalità di temi, idee, spunti,
raccolti in esso dal regista. È paradossale, tuttavia, notare come un film
all’apparenza così grande, così complesso da avvicinare, sia in realtà
caratterizzato da una chiarezza espositiva e da una sinergia tra stile, forma e
messaggio sempre più rare a trovarsi nel cinema contemporaneo, basta, forse,
soltanto avere le chiavi giuste per schiudere quella che è a tutti gli effetti
la scatola del tempo che Cuaròn ha preparato per noi spettatori.
Forse, il primo passo più
utile per confrontarsi con Roma è
proprio chiarire questa sua natura concettuale di oggetto indissolubilmente
legato all’azione del ricordo. Su quella che è a tutti gli effetti una scatola
del tempo fatta di immagini in movimento è possibile individuare l’azione di
più input opposti, che si contrappongono tra loro per entità, segno e,
soprattutto, direzione della loro azione.
In Roma lo spazio borghese in cui vive, lavora e agisce la cameriera
Clèo è uno spazio chiuso e separato da quello popolare in cui fervono
inarrestabili moti di cambiamento e rivoluzione, un ambiente assolutamente
refrattario a stimoli esterni che giungono sempre quasi portati per caso da
altri personaggi che con Clèo finiscono irrimediabilmente per interagire, uno
spazio che quasi vuole, intrinsecamente esplodere, liberarsi, aprirsi
all’esterno (pensiamo, tra l’altro, al motivo ricorrente costituito dalle
immagini di aeroplani che, letteralmente, fanno capolino nei modi più impensati
all’interno della pellicola). Al contempo, all’interno del film, si incontrano
il punto di vista intimista, personale, soggettivo di Cuaròn e quello più grande,
oggettivo, offerto dalla Storia, sostenuto da elementi quali l’identità culturale
del paese e i suoi sviluppi, i rapporti tra le classi sociali, la psicologia
profonda del popolo messicano. Roma,
in buona sostanza, è proprio il luogo in cui Cuaròn prova a tirare una linea, a
fare un bilancio della storia politica e sociale del Messico degli anni ’70
utilizzando lo spunto autobiografico che la vicenda della cameriera Clèo gli
offre.
Tutto potrebbe partire, in
sostanza, dall’annotare quanto il film, proprio nel suo essere intrinsecamente
una scatola del tempo, incarni anche alcuni caratteri tipici di un ambiente di
studio, quasi laboratoriale, uno spazio chiuso e controllato in cui si studiano
particolari fenomeni fisici o biologici ma in cui, forse soprattutto, più di
ogni altra cosa si svolgono esperimenti, simulazioni per ricreare contesti di
studio particolari da osservare più attentamente e da cui, eventualmente,
trarre conclusioni utili a sviluppare altri progetti forse anche più complessi.
Sotto questa nuova lente
interpretativa, Roma diventa quindi
il risultato delle interazioni di un sistema all’apparenza chiuso con forze di
entità differenti. A ben guardare, il film di Cuaròn è, prima di qualsiasi
altra cosa, un organismo retto da fondamenta solide e oggettive quali possono
essere, da un lato, la Storia del Messico degli anni ’70 e dall’altro
l’elemento autobiografico della storia famigliare di Cuaròn stesso (anch’esso,
a ben guardare, oggettivamente desumibile da diari, fotografie, testimonianze
dei parenti). Questi due elementi oggettivi, tuttavia, fin dall’inizio
subiscono la pressione di altre strutture di significato, quali lo stile
proprio con cui Cuaròn si approccia alla scena e, soprattutto, la vera e
propria azione del ricordare, soggettiva per sua stessa natura intrinseca (dato
che il ricordo è sempre orientato, influenzato dalle sensazioni, dai sentimenti,
provati nel momento in cui abbiamo fatto esperienza di un determinato
avvenimento).
Torna dunque l’immagine
dell’esperimento, che vede una dimensione chiusa in sé stessa venire, di fatto,
manipolata, distorta da input differenti (spesso, come in questo caso, di segno
opposto rispetto a quelli che la caratterizzano) provenienti dall’esterno.
Roma, a ben guardare, è prima di ogni altra cosa questo, un
tentativo di Cuaròn di utilizzare il cinema (principalmente ma non solo), per
entrare nella storia (personale e nazionale), più che per testimoniarla, per
manipolarla, nel tentativo di raggiungere una meta ulteriore, di ottenere
qualcos’altro.
In parte, lo abbiamo già detto,
Cuaròn vuole offrirci quello che a tutti gli effetti è un bilancio delle
rivolte politiche e sociali del Messico di quegli anni ma, al contempo, sembra
che con Roma egli voglia lavorare
alla sintesi di una vera e propria narrazione, che porti alla luce tanto gli
obiettivi, le aspirazioni, di questi moti di rivalsa sociale da parte delle
classi subalterne, quanto i loro limiti, il loro fallimento nel momento in cui
queste stesse aspirazioni finiscono per scontrarsi con il freddo REALE.
Si parte con il riconoscere
quanto all’interno di Roma scorrano
in parallelo due orizzonti tematici in costante, sotterraneo, conflitto, tra
loro.
Sul versante più superficiale, il
film sembra essere, attraverso la sua diegesi, ma soprattutto attraverso le
vicende di Clèo, il suo modo di rapportarsi al mondo e alla realtà, il racconto
di un rapporto positivo, luminoso, tra padrone e operaio.
Clèo vive una vita tutto sommato
felice, scandita da una routine che tuttavia non sembra pesarle, sembra essere
stimata e apprezzata dai due borghesi a cui fa da cameriera e, soprattutto, è
amatissima dai figli dei suoi padroni, per cui ricopre una posizione simile a
quella di una madre surrogata e che ama come fossero suoi. La vita di Clèo
sembra essere sicura da qualsiasi turbamento di sorta (di nuovo, la realtà borghese
in cui vive è impenetrabile agli input esterni), tanto che la donna pare vivere
in maniera assolutamente dignitosa e pregna la sua natura di donna che è anche
una domestica sotto padrone.
In rapporto a ciò, la forma, il
linguaggio con cui Roma si sviluppa
attua spesso quella che potremmo definire come “Estetizzazione Del Quotidiano”,
proprio perché la diegesi non si fa problemi a ostentare per lungo tempo sulle
attività più basilari della vita lavorativa di Clèo che siano la pulizia di un
pavimento, una passeggiata con i figli, la preparazione dei pasti, cercando,
sempre, di portare alla luce, attraverso gli strumenti tipici del linguaggio
cinematografico, le inquadrature, la fotografia, determinate carrellate, la
bellezza, la dignità intrinseca di queste attività e delle persone che le
compiono (in questo senso, abbastanza rivelatoria è proprio la prima sequenza
del film, in cui l’attività di pulizia dell’androne della villa viene
destrutturata dall’inquadratura, che si concentra soltanto sullo splendido
rivolo d’acqua sporca che scorre lentamente davanti all’obiettivo).
Non solo, perché a sostanziare
questa sorta di “narrazione positiva” del Messico degli anni ’70 pare esserci
una straordinaria solidarietà tra borghesia e classe operaia: Sofia, la padrona
di Cleo, è assolutamente solidale con la cameriera e non la licenzia nel
momento in cui viene a sapere che la ragazza è incinta, l’anziana madre di
Sofia sarà colei che accompagnerà Clèo all’ospedale nel momento in cui le si
romperanno le acque e che la sosterrà nei primissimi momenti del travaglio,
addirittura, in una delle sequenze centrali della pellicola, possiamo osservare
padroni e operai collaborare insieme allo spegnimento di uno straordinario
incendio che è scoppiato nella tenuta di un possidente.
In questo senso, la narrazione di
Cuaròn sembra voler compiere un passo ulteriore nel momento in cui prende le
rappresentanti di due classi sociali apparentemente avversarie e le fa alleare
contro un comune nemico. Con l’andare avanti della narrazione è chiaro infatti
che sia Sofia che Clèo finiscono per impattare pesantemente con la mentalità
maschilista del Messico di quegli anni e se le reazioni di Clèo all’impatto non
colgono impreparato, per certi versi, lo spettatore, l’evoluzione del
personaggio di Sofia è straordinariamente rivelatorio di quell’idea di alleanza
positiva tra classe media e proletariato che sembra voler suggerire il film in
questi istanti. Nel momento in cui la frustrazione della donna contro il marito
assente e l’impotenza scaturita dai suoi tradimenti diventano insostenibili
Sofia non si fa scrupoli, va a prendere l’amatissima Ford del marito e la
distrugge, facendo in mille pezzi quello che a tutti gli effetti è un feticcio
borghese.
Il mondo rappresentato da Cuaròn
in questa prima narrazione positiva sembra essere dunque una dimensione perfetta,
solidale, sicura, in cui, più di ogni altra cosa, il cinema ricopre un posto di
primo piano non solo come strumento linguistico e costruttivo (Roma di fatto si regge su influenze
provenienti dallo stile passato di Cuaròn ma anche da approcci “altri” come
quello di Fellini o di Brillante Mendoza) ma anche come strumento di
aggregazione delle varie classi sociali.
Poi, però, qualcosa sembra
rompersi.
Si potrebbe pensare che il tutto
avvenga in maniera più o meno repentina, precisamente nel momento in cui Clèo
stringe tra le braccia il corpicino del suo bambino nato morto. È la prima,
vera crepa all’interno di questo mondo perfetto che il cinema ha creato e in
cui si muove Roma, è l’attestazione
che la positività, la luminosità quasi imposta, insistita che finora ha
dominato la pellicola è molto meno solida, resistente di quanto voglia apparire
e che tutto finisce per appassire, per distruggersi, nel momento in cui si
confronta con la realtà dei fatti, ma è davvero così?
Lo è solo in parte, in realtà.
Perché se è vero che ci troviamo di fronte al vero e proprio turning point
della vicenda è altrettanto vero che la sequenza con al centro il figlio di
Cleo in realtà rende evidente quella narrazione negativa, nichilista, che punta
a mostrare i limiti della rivoluzione sociale nel Messico degli anni ’70 nel
momento in cui si confronta con il REALE che tuttavia, a ben guardare, è
emersa, sebbene sottotraccia, già con non poca forza all’interno del luminoso
racconto (almeno fino a questo momento) di Cleo.
Strumento principale di questa
seconda narrazione sembra essere quel Realismo Magico che è una delle
fondamenta della letteratura latino americana del ‘900.
Nel Realismo Magico la realtà si
osserva attraverso una sorta di velo squarciato da cui emergono dettagli legati
a mondi, dimensioni, altre, che finiscono per perturbare, in maniera non
traumatica ma ugualmente profonda il reale. In Roma il realismo magico diventa il linguaggio attraverso cui
realtà, sogno e ricordo si incontrano, ma è, anche e soprattutto, il modo in
cui la narrazione negativa assesta alcuni profondi colpi a quest’infrastruttura
positiva che fino a questo momento sembra aver dominato il mondo di Cuaròn.
Ogni emersione del Realismo
Magico sembra portare con sé un qualcosa di oscuro, mortifero, che finisce per
mettere in dubbio la positività apparentemente intrinseca del racconto a cui
stiamo assistendo. Un terremoto irrompe all’improvviso mentre Cleo sta
osservando i bambini nella nursery in ospedale, i rivoluzionari impegnati in
una manifestazione appaiono al centro di un paesaggio fantasma, dominato dalle
forze di polizia; in un primo momento paiono incarnare i tratti di una eco
lontana, salvo poi irrompere con tutta la loro violenza nel centro commerciale
dove sta facendo compere la protagonista; infine, il figlio più piccolo di
Sofia sembra ricordare esperienze che ha vissuto prima della sua nascita, tutte
accomunate da una straordinaria cupezza e da epiloghi tragici; infine,
osserviamo il fidanzato di Clèo praticare arti marziali di fronte ad un ambiguo
personaggio, una star televisiva interprete di un supercattivo da romanzo d’appendice
per cui sembrano confondersi i confini di queste due identità, vero e proprio
portavoce e amplificatore della natura intrinsecamente violenta dell’uomo
messicano.
Se è vero che la narrazione
negativa è stata, a questo punto, sempre presente all’interno di Roma è altrettanto vero che il momento
in cui essa si fa più evidente corrisponde alla morte del figlio di Cleo, ciò
che tuttavia non può essere sottovalutato è quanto proprio dopo la “rottura
dell’idillio” operata da questa sequenza, a seguito del percorso che vorrebbe metabolizzare il lutto, anche la
narrazione positiva che ci ha condotto fino a quel punto viene rivista e
cambiata di segno, segnali inquietanti all’interno di scene apparentemente
positive vengono alla luce e Roma raggiunge
la piena maturazione di narrazione che ora accetta la sua natura
intrinsecamente negativa con al centro un popolo a cui (per colpa propria e di
altri) è impedito qualsiasi cambiamento, qualsiasi evoluzione, proprio perché
inserito in una società ormai senza speranza o quasi.
Perché da un lato è vero che
Sofia ha distrutto il feticcio borghese, ma dall’altro è altrettanto vero che è
e rimarrà fino a prova contraria l’esponente di una classe agiata che potrà
risolvere con i soldi la maggior parte dei suoi problemi (tanto è vero che per
processare la separazione dal marito va con i figli per una settimana alla loro
casa al mare), un lusso che nessun popolano potrà mai permettersi;
Perché è vero che il padrone
sembra essere solidale con il lavoratore, ma è altrettanto vero che Sofia non
sembra accorgersi della perdita del bambino di Cleo, o perlomeno non sembra
darle la giusta importanza, tanta è la superficialità con cui la invita alla
casa al mare.
Perché è vero che l’incendio è
stato spento grazie all’azione congiunta di popolo e classe borghese ma proprio
i borghesi non sembrano aver perso, neanche in un’occasione così delicata, la
loro attitudine al comando, tanto che gli anziani finiscono per ordinare ai
bambini, ai loro figli, ai nipoti, dove dirigere l’acqua per spegnere le
fiamme, il tutto mentre sorseggiano champagne.
Il complesso esperimento di
Cuaròn sembra essere dunque fallito. Non è possibile, neanche sul piano
puramente narrativo, creare una dimensione in cui la lotta di classe ha
generato una società pacifica ed egualitaria. La rivoluzione ha effettivamente
fallito, soprattutto perché le parti in gioco non sembrano, nel bene e nel
male, riuscire a modificare la loro essenza per compiere quel salto necessario
ad un eventuale evoluzione.
C’è speranza? Apparentemente si,
tutto potrebbe ripartire dagli ultimi, da quel popolo genuino, umano, guardato
con tenerezza dalla diegesi, ma la stessa diegesi sembra metterci in guardia:
Cleo, che la narrazione ha seguito con delicatezza e ha continuamente
sostenuto, in fondo, è una donna assolutamente assimilata al sistema borghese,
forse anche troppo, a tal punto da accettare la realtà dei fatti e a non agire
con freddezza per riequilibrare la bilancia, siamo davvero sicuri, dunque, che
la rivoluzione, il cambiamento, possa partire da lei?
Alessio Baronci
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