Raramente si incontra un progetto, all’interno del panorama della musica per il cinema contemporaneo come quello legato alla soundtrack del remake di Suspiria a firma di Luca Guadagnino curata dal leader dei Radiohead Thom Yorke.
L’unicità di un oggetto artistico
del genere, forse, sta proprio nel suo rappresentare pienamente cosa si intenda
quando si parla di drammaturgia musicale applicata all’orizzonte del
cinematografico.
Il lavoro di Yorke, lungi dal
voler essere (soltanto) uno strumento funzionale, sottomesso, al sistema film,
sceglie di sviluppare un suo proprio discorso che intreccia, si interfaccia, si
confronta in modo critico non solo con il tessuto tematico del progetto di
Guadagnino ma con la vera e propria galassia di riferimenti che nasce da quello
che è, a tutti gli effetti, un sistema all’interno del quale convergono almeno
tre insiemi di segni fatti di spunti, riferimenti, sensazioni, simboli
archetipici differenti.
Il film di Dario Argento, la sua
rilettura da parte di Guadagnino e il commento sonoro di Thom Yorke si
intrecciano in un dialogo continuo ma proprio questa struttura di significato
invita, in buona sostanza, a considerare le parti del discorso come entità
separate le une dalle altre. E allora ecco che diviene lecita un’analisi che
prenda in considerazione la sola drammaturgia sonora, il solo discorso
organizzato attorno al suono da Yorke, un discorso che, sebbene presupponga il
suo reggersi attorno a dei landmarks, dei punti di riferimento (di fatto, le
scene, i personaggi, le azioni a cui il suono fa allo stesso tempo da
sostegno), non è così scontato si muova nello stesso solco drammaturgico
segnato da Guadagnino, non è così scontato, in sostanza, che il suono non si
muova su un percorso originale, ancora meglio, non è così scontato che la
drammaturgia sonora scelga metodologie originali per sottolineare le dimensioni
tematiche e simboliche attorno a cui si muove la pellicola.
Forse, il primo passo utile per
analizzare la portata del progetto sonoro di Thom Yorke è proprio comprendere quali
siano i presupposti attorno a cui prende le mosse nel tentativo di approcciare
quella dimensione sonora, quello spazio che poi verrà irrimediabilmente turbato
dal lavoro di composizione.
In questo senso, tuttavia, è
necessario fare un passo indietro. L’approccio primordiale, di Argento, a Suspiria, conserva meglio di altri
elementi drammaturgici l’originalità di un progetto del genere.
Suspiria è infatti il racconto di uno spazio in divenire, un racconto al cui centro c’è proprio, tra le altre cose, la trasformazione di questo spazio. Dopo aver fatto i primi esperimenti in questo senso con la parentesi della sensitiva in Profondo Rosso, Suspiria è in effetti, a ben guardare, il primo film di Argento che si confronta apertamente con un sistema di regole eminentemente paranormale. L’elemento più interessante in questo senso è che il film sceglie un approccio tutto suo per farlo. Perché al centro di Suspiria, più che la magia in sé, più che il demonismo in sé, c’è la volontà di tracciare i cambiamenti e le variazioni che subisce la concretezza della realtà nel momento in cui essa viene infiltrata dall’elemento paranormale, dalla distorta meraviglia della magia, a sostanziare il film di Argento c’è la graduale distruzione del sottile velo che separa il reale e lo straordinario, c’è il lento ma inesorabile sovvertimento di tutto ciò che percepiscono i nostri sensi e l’assorbimento di ciò che c’è, di ciò che sentiamo, vediamo, in quell’oscurità atavica eterna e incomprensibile catalizzata dalla magia nera delle Tre Madri. E allora ecco che il film di Argento parte con l’essere ben fermo in un contesto reale e gradualmente finisce per perdere i suoi punti di riferimento rappresentativi le prospettive finiscono per essere distorte, i colori subiscono modifiche repentine, le inquadrature catturano uno spazio irreale, tutto ciò che vediamo, in sostanza, finisce per mantenere solo un flebile rapporto con la concretezza della realtà in cui Susy è stata immersa fino ad un momento prima di entrare nella scuola.
Proprio questo profondo rapporto
con il REALE è uno degli elementi su cui si è operata un’azione di
conservazione nel passaggio dal Suspiria Argentiano
a quello di Guadagnino (una conservazione a cui ha seguito anche un
approfondimento, dato che il Suspiria del
2018 pone solide basi nell’Autunno Tedesco degli anni ’70 e utilizza proprio la
Storia, il racconto della realtà, come una delle sue leve tematiche più
importanti) ma forse, in questo senso, l’aspetto più interessante è capire come
ragiona la drammaturgia sonora nel momento in cui si ritrova costretta a
muoversi in parallelo al film e a tematizzare quella concretezza da cui la
pellicola parte.
In questo senso, questa prima
parte del lavoro di Thom Yorke sul suono sembra perseguire due obiettivi
differenti. Da un lato le sue composizioni sembrano voler conservare in loro il
germe di quella realtà sensibile che innerva tutto il primo atto della
pellicola, dall’altro il suono sembra sviluppare anche e soprattutto un
discorso eminentemente metatestuale, definendo, descrivendo e segmentando
proprio gli elementi essenziali della rappresentazione.
Il primo brano, A Storm That Took Everything, è una
composizione che si organizza attorno ai suoni elettronici, eterei e
sperimentali del Krautrock, genere musicale di riferimento, a cavallo tra il
progessive rock e la psichedelia, sviluppatosi all’interno della scena musicale
tedesca durante gli anni ’70 grazie a band come Faust o Can e dunque,
proprio per gli elementi che la caratterizzano, la traccia d’apertura del disco
di Yorke, trasporta in sé il germe utile a definire il contesto temporale della
vicenda che si andrà a raccontare.
Discorso più sottile viene
compiuto con The Hooks che fa un
passo ulteriore verso quella struttura meta-testuale che sembra essere alla
base di questo primo discorso compiuto da Yorke. Se nel caso del primo brano il
suono contribuiva a definire il tempo di svolgimento della storia che si andrà
a raccontare The Hooks con la sua
cadenza lenta ed elementare, la sua struttura di scala discendente, dilatata ed
inquietante nella sua semplicità di leit motiv minaccioso che più di una volta
tornerà a farsi vivo durante la visione, porta con sé dunque il riferimento a
quella stessa inquietudine che si lega a doppio filo con l’estetica, con il
genere, horror a cui è riconducibile proprio il film di Guadagnino.
E allora ecco che in questo
percorso di definizione delle coordinate principali del progetto attraverso il
suono il terzo passo da compiere riguarda proprio il confrontarsi con le parti
in gioco all’interno di questo stesso sistema. Suspirium, terza traccia del disco e primo brano in forma canzone,
si incarica proprio di espletare questa funzione. È, di fatto, il primo brano
che lo spettatore ascolta in maniera completa nel film ed in
particolare emerge sui titoli di testa, con il pezzo che fa da sottofondo a
quadretti della vita quotidiana della protagonista mentre si appresta a
lasciare la comunità Mennonita americana dove è nata e vissuta fino a questo
momento. Suspirium presenta dunque
allo spettatore il personaggio di Dakota Johnson e lo fa rifacendosi ad
un’atmosfera quieta, sfruttando quello che a tutti gli effetti è un valzer, una
struttura regolare, scandita nello spazio e nel tempo, uno spunto sonoro
perfettamente in linea con i tratti di quella realtà a cui il brano fa da
sottofondo e che finisce per delineare.
In tre momenti sonori, Thom Yorke
definisce dunque uno spazio sonoro vero e proprio, fatto di coordinate
essenziali (il tempo, lo spazio, il protagonista, l’atmosfera) più o meno
conchiuso in sé stesso e in cui lo spettatore viene inserito. La dimensione
sonora sembrerebbe voler doppiare, in questo caso, la regolarità di quel reale
da cui prende le mosse la pellicola, quel sistema di regole e input condivisi e
riconosciuti che l’intrusione dell’elemento soprannaturale finirà per
infiltrare e ribaltare.
Fondamentale, in questo senso, è
proprio capire in che modo questa graduale corruzione della realtà da parte di
un elemento minaccioso ed esterno viene tematizzata all’interno della
dimensione sonora da Thom Yorke. Da questo momento in poi, nel disco
si susseguono infatti momenti, episodi, che puntano a voler dare concretezza al
vero e proprio confronto (per ora suggerito e tuttavia, presente, vivo,
incombente) tra concreto e alieno, tra reale e soprannaturale e alla
conseguente e persistente azione di ribaltamento che pian piano coinvolge la
gran parte degli elementi sensibili.
Si parte con Has Ended, altro brano eminentemente cantato che pare una versione
deviata di un brano tradizionale dei Radiohead nella prima parte della loro
carriera. La voce di Thom Yorke è effettata così da apparire distante, ovattata
rispetto al nostro punto d’ascolto, le armonie sono essenziali, le parole
finiscono per sclerotizzarsi in monotone nenie e per perdersi in echi lontani,
con la forma canzone che finisce per deflagrare sotto il peso di questo nulla,
di quest’oscurità incombente.
L’ascoltatore si confronta dunque
prima di qualsiasi altra cosa con un pop sghembo, lontano dal suo orizzonte
d’attese, ribaltato nelle sue componenti essenziali ma di certo l’esperimento
più ardito all’interno di questo stesso sistema si confronterà con lui solo più
in là: Sabbath Incantation è un brano
che rimanda (fin dal titolo) alle atmosfere di un Sabba stregonesco ma, di
fatto, è letteralmente fondato su quegli elementi legati ad un’idea di
ribaltamento, quasi di perturbante, potremmo dire, che scorre in tutta la
pellicola: in primo luogo le parole pronunciate durante il brano non hanno
valenza semantica, non significano nulla e non rimandano a qualche rito magico
arcaico, si limitano, piuttosto, a scimmiottare il latino; ciò che colpisce di
più del pezzo, tuttavia, è proprio il suo inserirsi senza particolare sforzo in
una tradizione più vicina al canto ecclesiastico, di chiesa, piuttosto che al
rito satanico. Il canto alla base di Sabbath
Incantation è infatti portato avanti da un coro di voci bianche e,
soprattutto, si caratterizza per melismi dolci, delicati, per un’atmosfera a
suo modo rasserenante, che punta, quasi, ad elevare l’esperienza d’ascolto più
che a farla sprofondare in un abisso oscuro.
A fare da cuscinetto tra questi due exploit sonori c’è Klemperer Walks, brano che fa da sottofondo ad una delle prime passeggiate dello psichiatra Klemperer e in cui i suoni distesi dei synth finiscono per scontrarsi, per confrontarsi con la concretezza, con la matericità dei passi del personaggio (vera e propria sorgente di suono essi stessi). Il duetto che ne consegue finisce senza vincitori né vinti ma è fondamentale notare, in questo caso, il cambiamento di stato che sta subendo proprio il concetto di suono attraverso questo brano. È chiaro che Thom Yorke irradia il suono di qualcosa di profondo, è chiaro che per il compositore esso diventa il correlativo oggettivo che catalizza in esso tutto il potenziale di quella magia, di quell’oblio, di quel nulla che lentamente finirà per soverchiare la realtà sensibile. Il suono diventa l’ingrediente essenziale di quest’incantesimo primordiale dunque e in questo senso Klemperer Walks, con il suo avvicendarsi di suono elettronico e concretezza reale, si ritrova a ricoprire il ruolo di manifesto programmatico utile a sviluppare nella dimensione sonora uno dei nuclei tematici essenziali del progetto Profondo Rosso.
A fare da cuscinetto tra questi due exploit sonori c’è Klemperer Walks, brano che fa da sottofondo ad una delle prime passeggiate dello psichiatra Klemperer e in cui i suoni distesi dei synth finiscono per scontrarsi, per confrontarsi con la concretezza, con la matericità dei passi del personaggio (vera e propria sorgente di suono essi stessi). Il duetto che ne consegue finisce senza vincitori né vinti ma è fondamentale notare, in questo caso, il cambiamento di stato che sta subendo proprio il concetto di suono attraverso questo brano. È chiaro che Thom Yorke irradia il suono di qualcosa di profondo, è chiaro che per il compositore esso diventa il correlativo oggettivo che catalizza in esso tutto il potenziale di quella magia, di quell’oblio, di quel nulla che lentamente finirà per soverchiare la realtà sensibile. Il suono diventa l’ingrediente essenziale di quest’incantesimo primordiale dunque e in questo senso Klemperer Walks, con il suo avvicendarsi di suono elettronico e concretezza reale, si ritrova a ricoprire il ruolo di manifesto programmatico utile a sviluppare nella dimensione sonora uno dei nuclei tematici essenziali del progetto Profondo Rosso.
Addirittura, se possibile, più
interessante in questo senso è Olga’s
Destruction brano che fa da sottofondo ad una delle prime brutali morti
all’interno della scuola di danza. Tutto il brano è organizzato attorno ad un
giro armonico di cinque note di pianoforte la cui altezza finisce per variare
nel corso della composizione e a cui si aggiungono costantemente elementi che
finiscono quasi per affossare il suono. L’andamento poliritmico, inquietante,
il cristallizzarsi del brano attorno ad un giro ossessivo fa in modo che la
struttura di Olga’s Destruction possa
essere assimilabile a quella di una vera e propria formula magica, un sistema
di segni prestabilito, pronto a smuovere, a controllare, energie ad altri
sconosciute, al fine di utilizzarle per rompere le leggi della realtà. A metà
tra un incantesimo e (questa volta si) un rito arcaico legato all’orizzonte dei
Sabba stregoneschi, la portata oscura smossa dal brano è perfettamente
riconoscibile da tutte le stilettate, gli effetti elettronici che puntellano il
brano, giocate attorno a suoni acuti, fischi, respiri, sospiri, rumori
materici.
La magia sta, in sostanza,
iniziando ad agire sempre più prepotentemente sulla realtà con cui ci
interfacciamo, è uscita allo scoperto e il suo progetto di assimilazione si fa
sempre più evidente.
The Jumps è un brano tutto giocato sulle basse frequenze, una sorta
di De Profundis elettronico che lentamente sale e finisce per annullarsi in un
loop organizzato attorno ad una manciata di toni ricorrenti. L’atmosfera è
ovattata e man mano che si avvicina il termine del brano l’orizzonte sonoro
finisce per avvilupparsi su sé stesso, un po’ come se avesse appena inglobato
una porzione di quel reale con cui si è confrontato fino a questo momento.
Tutto finisce per chiudersi in un cupo silenzio, un baratro con cui si
confronta lo spettatore/ascoltatore, l’unico lascito di questa prima esperienza
evidente di scorporazione del
suono.
Il passo successivo in
quest’azione di annullamento e assimilazione è proprio Volk, di fatto, il balletto attorno alla cui coreografia ruota gran
parte del film. Basandoci sulle premesse che ci hanno condotto fin qui non è
difficile avvicinare proprio Volk ad
una sorta di incantesimo in divenire che raggiunge la sua forma più compiuta
nel momento in cui al suono si aggiunge la danza delle ballerine. Alla base di Volk c’è, nuovamente, il serialismo anni
’20 che ingabbia il suono in una ripetizione ossessiva di toni che si
susseguono attraverso minime variazioni. Il brano è soverchiante all’ascolto,
quasi fastidioso, complici anche i suoni acuti, elettronici, che a volte si
elevano da questo tappeto drone. Lentamente, il giro di note passa dallo sfondo
al primo piano sonoro e acquista sempre più peso e concretezza. I toni ora sono
ripetuti ossessivamente dal piano e i bassi esercitano su di loro una pressione
crescente. La velocità aumenta gradualmente, il ritmo si fa più coinvolgente,
il brano finisce per sfociare in brevi cellule ritmiche suonate da una batteria
che ammantano Volk di atmosfere jazz.
L’alone mistico, magico ora assume ancora più definizione, non è più solo un
sabba indistinto, ora sembra che lo spettatore/ascoltatore si stia confrontando
con un vero e proprio baccanale. Il brano termia, accompagnato, come è già
accaduto in altri casi, da quel suono oscuro, ovattato che precede una
parentesi di silenzio, un’altra porzione di realtà è stata inglobata dal nulla.
Le due traccie successive The Balance Of Things e Suspirium Finale sono esempi perfetti
per mostrare l’assimilazione in atto tra elemento concreto (reale) e suono
manipolato (magia, oscurità).
Nel primo brano osserviamo la
metamorfosi in atto all’interno di una cellula sonora prodotta dal pianoforte
(impegnato in una scala discendente) e dalla voce umana (che si lancia in
incomprensibili e flebili vocalismi). Lo spazio sonoro attorno a cui si
articola questo momento viene lentamente insidiato da uno spunto elettronico
che dapprima lo dilata e subito dopo finisce per assorbirlo lasciando dietro di
sé quegli spunti ambient, seguiti da cellule ovattate, gutturali che abbiamo
già imparato a conoscere.
Il percorso di Suspirium Finale sembra tematizzare,
invece, proprio l’evoluzione della protagonista. L’ascoltatore avrà modo di
confrontarsi nuovamente infatti con la canzone che fa da sottofondo alla
presentazione di Susy, con la sola differenza che stavolta si tratta di una
versione, prima che manipolata, espansa dalle interpolazioni elettroniche. Il
brano emerge da quello stesso vuoto fatto di drone e caos che ha chiuso il
pezzo precedente e si sviluppa lungo sette minuti in cui le armonie vengono
arricchite dal suono di archi aggiunti elettronicamente e la voce di Thom Yorke
viene manipolata, distorta, attraverso echi e aggiustamenti di tono. Il
risultato è straordinariamente seducente, non tiene a distanza l’ascoltatore ma
è chiaro che, quasi a voler simboleggiare l’unione tra seduzione, minaccia e
mortalità, tipica delle streghe, sotto la sua superficie si nasconde un’anima
buia che alla fine non può fare a meno di emergere e di esplodere. Prova ne è il
caos di suoni elettronici, veri e propri cristalli che colpiscono l’ascoltatore
e si raggruppano in nuguli con cui si chiude il brano.
Al centro di A Choir Of One c’è invece il lavoro di scorporazione, annullamento,
operato dall’oscurità sulla voce umana. In quattordici minuti l’esibizione
corale al centro del brano viene letteralmente destrutturata dall’intrusione
della manipolazione elettronica. La voce si annulla nell’unità, viene
cristallizza in loop, si sdoppia, triplica, quadruplica, viene coinvolta in una
diplopia di straordinario impatto. Le potenzialità della voce umana vengono
esplorate in profondità e il suono viene spinto fino ai suoi limiti. Sembra che
si stia ascoltando un miracolo, o almeno una magia positiva, simile a quelli
che dovrebbe fare l’Anticristo durante la sua venuta. Peccato che tutto,
improvvisamente, finisca e venga inghiottito da quel nero, da quel vuoto che
rende evidente che ciò che abbiamo appena sentito è in realtà una nuova cellula
oscura con cui la magia nera si appropria del nostro mondo e fa tutto questo
attaccando quella voce che è uno dei simboli primordiali dell’identità
dell’uomo.
A Choir Of One è il momento in cui l’uomo muore.
L’assimilazione della realtà
sensibile ha ormai raggiunto il suo completamento, l’ultimo atto della
composizione di Thom Yorke, suddiviso in cinque movimenti, rappresenta, di
fatto, cinque istantanee da questo mondo che al contempo non è più ed è ancora,
brandelli di quella realtà che, ancora per poco, sembra sopravvivere, cerca di
farsi sentire, di emergere, fino, tuttavia, ad essere zittita, uccisa, dal
suono elettronico.
Per primo lo spettatore ascolterà
Synthesizers Speak, un brano
organizzato attorno a delle cellule sonore (originate da un sintetizzatore) che
sembrano rimandare a grida di dolore o comunque a tentativi di attirare
l’attenzione di chi ascolta. Il suono è tuttavia ovattato, rinchiuso tra le
quattro pareti ideali di uno stretto, opprimente spazio sonoro su cui finiscono
per impattare queste richieste di aiuto.
The Room Of Compartments sembra essere invece una composizione più
conchiusa in sé stessa. Su un tappeto sonoro che rimanda a quella scala in loop
che per prima abbiamo ricondotto ad un rito magico si sviluppano cellule sonore
acute e disordinate, inframezzate da spunti inquietanti che paiono echi e grida
lontane. La sensazione è che il suono provi a modellare una sorta di visione a
volo d’uccello di questo paesaggio irrimediabilmente corrotto dal Male.
The Auditorium è un’unica, breve, ma straordinariamente potente
pugnalata all’ascoltatore tutta gestita dal rapidissimo giro improvvisato al
synth che emerge dal vuoto.
Voiceless Terror sembra ritornare su quell’idea di rappresentazione
di uno spazio corrotto già presente in The
Room Of Compartments solo, variandone la prospettiva. Ora l’ascoltatore
sembra essere trasportato nelle profondità dell’abisso, costantemente aggredito
da suoni acuti, acuminati e interpellato da queste voci/non voci filtrate,
elaborate elettronicamente, mentre un bordone, pesante quanto una presenza
umana, parrebbe volerlo elevare ma in realtà lo trascina sempre più in basso
nell’oscurità senza ritorno.
Epilogue è, infine, la perfetta rappresentazione sonora di questa
terra desolata. Il brano evoca sensazioni di smarrimento e corruzione, il suono
del pianoforte è costantemente attutito dal tappeto di synth in alte frequenze
che lo sovrasta, come a voler impedire qualsiasi tentativo di rivolta, il suono
del vento interpolato durante il brano diventa l’unico, triste testimone
concreto di questa realtà altra, nuova, in cui la vita per come la conosciamo è
appena terminata. Più curioso del suo sviluppo, tuttavia, è proprio il modo in
cui Epilogue (e con lui tutto il
progetto sonoro di Thom Yorke) finisce per accomiatarsi dallo
spettator/ascoltatore. Al termine della composizione seguono circa tre minuti
di rumore bianco che si concludono con una parentesi di silenzio, cioè di ciò
che di più vicino c’è alla morte in un’esperienza che ha al suo centro il
suono.
Con il suo progetto sonoro
organizzato attorno al Suspiria di
Guadagnino Thom Yorke riesce dunque a portare avanti un discorso indipendente
dalla drammaturgia cinematografica, un discorso che coinvolge tutto il comparto
sonoro e che finisce per espandere, contraddire, circoscrivere ciò che lo spettatore
vede ed esperisce sullo schermo, il progetto di Thom Yorke prende dunque il
suono, lo rende corpo e lo fa diventare un’entità con una sua interiorità,
quasi una sua coscienza, capace di dialogare con il film ma dotato di una
profondità tale da sviluppare quello che, di fatto, è la rappresentazione della
morte di un mondo, di una realtà, il nostro mondo, la nostra realtà.
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