Red Dead Redemption 2 è uscito il 26 Ottobre 2018. Io l’ho comprato
cinque giorni dopo e dal momento in cui ho inserito il disco nella console ho
deciso che gli avrei dedicato il giusto spazio su Prospero, per discuterne in
maniera libera. Ho scelto di adottare una forma per certi versi sperimentale
per il pezzo che sarei andato a scrivere.
Assecondando la natura di
progetto esperienziale di Red Dead
Redemption 2 ho deciso quindi di tenere per un mese un diario in cui avrei
riassunto i momenti salienti delle mie fasi di gioco, nel tentativo di definire
i confini, i caratteri, gli eventuali limiti di quella stessa esperienza che
Rockstar Games pone di fronte ai giocatori.
Due disclaimer sono doverosi a
questo punto.
1) Quelli che leggerete sono
appunti sparsi che puntano ad analizzare i caratteri di un’esperienza e le
fondamenta attorno a cui si articola il progetto Rockstar Games Non è una
recensione, non è un’analisi del gioco nella sua interezza (semmai del suo
10%), è semplicemente un diario di viaggio i cui spunti mi hanno condotto, se
possibile, ad alcuni affascinanti elementi oggettivi che definiscono e sono
alla base di Red Dead Redemption 2.
2) Per massimizzare il più
possibile l’esperienza e per “sintonizzarmi” al meglio con la profondità del
messaggio insito nel gioco ho scelto di agire esattamente in parte, scegliendo cioè
di comportarmi ed agire esattamente come secondo me avrebbe fatto Arthur
Morgan, il protagonista della storia. Penso che questo sia il modo più giusto
per giocare un qualsiasi videogame d’avventura se punti all’esperienza più
completa ma nulla vieta, ad altri, di giocare RDR2 nella maniera a loro più congeniale.
31 Ottobre 2018 – L’Antiepica E L’Eroe Che Sapeva Di Non Esserlo
Si inizia con una fuga. Un
gruppo, una banda di malviventi in fuga da Blackwater dove l’ultimo colpo è
fallito ed è finito in una strage gratuita, alla ricerca di tranquillità e di
un posto da cui ricominciare. Questa, almeno, è la sensazione che ti si forma
nella testa fino a quando non prendi il controller in mano.
Un’apertura in minore,
antieroica, antiepica, che fa il pari con il riferimento ad elementi
dell’immaginario western che il western stesso tende a rifiutare o a mettere
tra parentesi (le montagne, le cime innevate, il freddo, opposto alle ampie
praterie e al clima caldo umido, elementi già visti in Corvo Rosso Non Avrai Il Mio Scalpo e nel più recente The Hateful Eight).
Il filmato iniziale termina e
prendo il controllo di Arthur Morgan, l’uomo che diventerà il mio alter ego in
quest’epopea. Il primo incarico di Arthur è andare in cerca di cibo con un
piccolo contingente della sua banda per permettere al clan Van De Linde di
sopravvivere in quell’ambiente ostile finché non tornerà la calma. Come da
tradizione, la scrittura dei prodotti Rockstar è costantemente in movimento e
perciò la caratterizzazione di Arthur (insieme a quella degli altri personaggi)
si costruisce, prima che con i dialoghi, attraverso le frasi spezzati, le
battute sbocconcellate che Arthur scambia con i vari personaggi letteralmente
nel corso delle varie missioni. Basta in realtà solo la prima ora di gioco per
capire che Arthur Morgan stesso risulta essere un personaggio assolutamente sui
generis all’interno del panorama videoludico contemporaneo.
Ai nostri comandi c’è un
personaggio stanco, disilluso, appesantito dal sangue di mille battaglie e
tormentato dai fantasmi degli uomini che ha ucciso. Arthur guarda al mondo con
un’ironia malinconica e amara che vorrebbe utilizzare per affrontare senza
sovrastrutture una realtà, una società, che lo sta sfibrando e di cui sente il
peso ogni giorno di più, diviso tra la fedeltà alla banda, alla famiglia,
all’anziano Dutch e il desiderio di scappare via, il più lontano possibile dai
suoi demoni. Arthur, con un sotterraneo moto di autocoscienza metavideoludica
che scorre in lui nel corso di tutto il gioco considera il suo ruolo di
protagonista del videogame un’ulteriore condanna che gli ha inferto il destino
per i suoi peccati. Lui non è un eroe, perché qualcuno vuole fargliene
interpretare a forza gli stilemi?
In fondo, ora, è chiaro che il
prologo che pone l’accento su un’estetica del western squisitamente ribaltata
altro non era che il correlativo oggettivo che porta a sviluppare nello spazio
il ribaltamento dell’iconografia Western di cui, ora è chiaro, anche Arthur è
una componente essenziale.
La caratterizzazione in divenire
di Arthur mi ha comunque offerto abbastanza elementi per iniziare a
comprenderlo e per offrirmi una griglia di regole per gestire il mio
comportamento all’interno del gioco.
Il primo test in questo senso me
lo offre una svolta inaspettata della prima missione. Il drappello che comanda
Arthur è arrivato vicino a una casa abitata. Uno degli uomini scende a bussare
per chiedere provviste ma la situazione precipita e gli abitanti della casa ci
attaccano. Apro il fuoco da dietro il riparo ma il colpo finisce troppo in alto
e fa volare il cappello al mio bersaglio.
Dico a me stesso che è successo
solo perché devo abituarmi ai controlli, in realtà, con buona probabilità, ho
istintivamente agito come avrebbe agito Arthur. Forse, in quell’occasione,
avrebbe sentito troppo evidente il peso della sua pistola e di tutto ciò che
esso poteva implicare (la morte, il dolore) e, colto emotivamente in fallo,
avrebbe fallito il colpo.
Piccola nota: dopo aver eliminato
i nemici mi viene ordinato di perquisire la casa in cerca di oggetti da
rivendere. La ricerca, il perdersi nell’ambiente, nel silenzio seguito alla
strage, risulta essere forse ancora più affascinante della sparatoria stessa.
1 Novembre 2018 – Regole D’Ingaggio
Valentine è la prima città con
cui il giocatore si confronta all’interno del gioco. Valentine sarà il luogo
delle prime rapine, delle prime scazzottate, ma, nel mio caso, la situazione
precipita già da qualche centinaio di metri prima di entrare in città per la
prima volta.
Uno dei numerosissimi eventi
randomici del gioco mi fa incontrare tre membri della gang degli O’Driscoll,
nota banda rivale dei Van De Linde. Mi provocano, mi guardano di sottecchi, si
aspettano una mia risposta. Mi limito in un primo momento alle parole, poi
qualcosa va storto e la situazione trascende. Gli O’Driscoll tirano fuori le
pistole e aprono il fuoco verso di me che, per fortuna, riesco a liquidarli
facilmente. Ho aspettato più del dovuto, in un altro gioco dello stesso genere
non mi sarei fatto problemi a crivellarli di colpi senza pensarci troppo,
accadeva così anche negli episodi del franchise di GTA. Probabilmente è per non influenza troppo il mio “livello di
onore”, la barra che misura e registra il mio comportamento e le azioni svolte
nel corso del gioco così da regolare il comportamento del mondo attorno a me in
rapporto ad esse: un omicidio a sangue freddo di questo tipo non mi avrebbe
fatto una buona pubblicità in fondo. In realtà, tuttavia, so benissimo che non
ho aperto il fuoco per primo perché Arthur non lo avrebbe mai fatto e,
dopotutto, come potrebbe mai uccidere un uomo che è stanco di questo mondo?
Ancora non me ne rendo conto ma
sembra che la scrittura di Arthur stia influenzando sempre più il mio approccio
al gioco
3 Novembre 2018 – Reverie E Libertà
La prima rapina al treno è il
momento in cui la narrazione riceve una prima spinta in avanti ma non è per la
svolta narrativa che ho scelto di annotare qualche appunto su questa missione.
La rapina procede da manuale e Arthur e la banda attaccano il treno che
precedentemente hanno costretto a fermarsi. Il protagonista si muove
circospetto nel silenzio ma, improvvisamente, si sente un colpo di pistola
partire e sfiorare Arthur da sopra la spalla. La sicurezza della compagnia
ferroviaria è stata allertata e sta procedendo al contrattacco. Mi sorprendo a
vedere Arthur reagire al colpo, si abbassa istintivamente, si regge il
cappello, è spaventato. La sua reazione fa in modo che anch’io cambi il mio
atteggiamento durante la missione, che diventa meno spavaldo, più controllato, pronto
ad aprire il fuoco alla prima occasione.
Il personaggio di Robert Ford di Westworld avrebbe chiamato quest’apparente
uscita dai binari di Arthur una reverie, un riflesso incondizionato di
un’entità irreale che ne aumenta la verosimiglianza con qualcosa di concreto ed
in effetti è esattamente questo ciò che sta succedendo: per un singolo, breve
istante, Arthur è ciò che di più vero, concreto, possa esistere all’interno del
mondo di gioco e questa stessa concretezza si trasferisce a noi giocatori che,
empaticamente, finiamo per provare ciò che prova lui sperimentando cosa voglia
dire cadere in un agguato e dunque finendo per modificare il nostro approccio
all’azione. Se lo facciamo per evitare di perdere la partita o per salvargli/salvarci
la vita, forse, è ancora da comprendere.
Alla fine della rapina la banda
torna all’accampamento e io rimango indietro per liberarmi del treno e dei vari
sopravvissuti. Lo faccio sparire ed evito di uccidere gli operai, che ora
viaggeranno senza meta sul treno fino alla fine del combustibile. Alla fine, il
gioco mi lascia da solo, nel silenzio notturno rotto solo dai versi di animali
lontani. Sono costretto a tornare in città sena compagnia ma questa sensazione
di libertà è straordinaria.
5 Novembre – Il Visitatore Inatteso
Esco dal campo base con
l’obiettivo di svolgere una nuova missione principale della storia ma i miei
piani vengono sconvolti quasi subito. Poco prima di Valentine vedo alzarsi una
densa colonna di fumo nero. Incuriosito vado ad investigare e scopro un
accampamento occupato da un avventuriero. Mi avvicino e lui mi intima di
allontanarmi. Non lo faccio, piuttosto scendo da cavallo disarmato e mi
avvicino. Faccio tre passi e lui apre il fuoco, il primo proiettile mi prende,
gli altri due li evito ma sono troppo spaventato per rispondere al fuoco. Salgo
sul cavallo e cerco di mettere più spazio possibile tra me e lui. È indubbio,
la piega imprevista degli eventi mi ha fatto spaventare e mi ha colto in
contropiede ma è innegabile che la soddisfazione di aver scoperto questo
brandello di vita all’interno del gioco ma separato, a parte, dalla storia
principale, questo spunto che esiste al di là delle mie azioni sul mondo di
gioco, questa parentesi di quotidianità che credo (lo so, a torto, ma è
interessante pensarlo) di aver scoperto solo io e non migliaia di altri
giocatori insieme a me è probabilmente la soddisfazione più grande che mi ha
riservato RDR 2 finora.
11 Novembre – Ritorno (Inconsapevole) A Casa
Questa volta scelgo di perdermi.
Qualcuno in giro su internet ha trovato il cavallo più veloce del gioco libero
in una particolare zona montana della mappa. Decido di andare a domarlo e
perciò mi metto in viaggio. Il cavallo non lo trovo ma, per certi versi, vengo
ricompensato in maniera ben più preziosa. Mentre mi sto avvicinando alla zona
di ricerca la mia attenzione viene attirata da un gruppo di case che si staglia
verso l’orizzonte. Mi avvicino e scopro un’intera città abbandonata. Lego il
cavallo e scendo imbracciando il fucile. Perquisisco casa per casa, entro ad
arma spianata e trovo un ambiente totalmente vuoto e in preda alla tempesta di
neve che sembra imperversare in questa zona. Il fascino dell’esplorazione è
straordinario, il silenzio, il suono delle assi di legno che si piegano sotto
al mio peso, la sorpresa da cui vengo colto ogni volta che apro un cassetto o
una porta, ogni volta in cui prendo possesso di questo luogo dimenticato è
migliore di qualsiasi ricompensa fisica fossi mai riuscito a recuperare. Poi,
un oggetto, mi fa comprendere che il posto in cui mi trovo altri non è che il
primo accampamento in cui la banda ha trovato rifugio all’inizio del gioco.
Sono tornato a casa senza saperlo, la spinta all’esplorazione che sembra essere
insita nel gioco ha modificato il mio approccio ad un luogo già conosciuto, me
ne ha fatto scoprire anfratti sconosciuti, me l’ha fatto ri-conoscere.
15 Novembre – Disperazione E Morte
La missione della giornata mi
porta a dover riscuotere dei crediti da alcuni abitanti dello stato. Il primo
che incontro è un immigrato polacco che deve restituire qualche migliaio di
dollari a un mio compagno di banda. Vado a casa del debitore, gli ricordo del
debito ma lui mi dice che non ha soldi. La missione mi ordina di pestarlo e lo
faccio. I colpi sono pesanti, l’uomo urla mentre lo colpisco al volto e i
lineamenti si distorcono a causa delle ferite. A ogni pugno emette urla
lancinanti. Sembra che la diegesi voglia farmi sentire tutto il peso emotivo di
ciò che sto facendo, di quanto, soprattutto, al personaggio che comando risulti
difficile, emotivamente parlando, fare ciò che sta facendo. Il polacco, in
lacrime, alla fine accetta e mi dice dove ha nascosto degli oggetti di valore
con cui potrà ripagare il debito. Mentre perquisisco casa sua passa tutto il
tempo rintanato in un angolo, a singhiozzare. Esco ma mi accorgo di un cavallo
che riposa nella stalla del debitore. Entro nella stalla e salgo sul cavallo,
esattamente come mi è capitato mille altre volte di fare con una qualsiasi auto
in GTA. Solo che stavolta, mentre me
ne sto andando dalla tenuta, il polacco mi urla che quello è il cavallo che
utilizza per lavorare nei campi e se glielo avessi portato via non avrebbe più
avuto nulla con cui sostenersi. Mi fermo, scendo e glielo restituisco. La
scrittura continua a guidarmi.
Un altro dei debitori mi dice che
ha nascosto una grossa somma di denaro nel tronco cavo di un albero. Raggiungo
l’albero e trovo il tesoro. L’albero però è vicino ad una casa, perciò decido di
andare ad investigare. Tiro fuori la mia arma e a lenti passi mi avvicino alla
costruzione. Nel frattempo è anche calata la notte e la foresta si sta
popolando di presenze minacciose, sento già i lupi in lontananza. Entro nella
casa e nulla mi prepara a ciò che sto vedendo. Davanti a me c’è la scena di un
suicidio rituale. Una decina di letti, posti su ambo i lati lunghi
dell’edificio, ognuno occupato da un corpo. Su uno dei lati più corti, un
altare, un tavolo, su cui è seduto quello che sembra essere un sacerdote, anche
lui cadavere.
Ho scoperto uno dei numerosi
easter eggs, una parte di un sistema retto da regole ma il modo in cui questo
spunto mi ha portato, ancora una volta, fuori dai binari principali quasi senza
accorgermene continua a stupirmi ancora oggi.
18 Novembre – Una Festa A Lungo Attesa
Torno all’accampamento, all’hub
centrale, dopo aver portato a termine una nuova missione della campagna. È
notte. Il piano è quello di far dormire il mio personaggio per velocizzare il
tempo, arrivare alla mattina e affrontare un nuovo incarico. Qualcosa, però, mi
blocca. All’accampamento le azioni che posso compiere sono molto più ridotte
del solito. Contemporaneamente percepisco molto più movimento degli altri
personaggi, attorno al fuoco e tra le tende.
Improvvisamente un membro della
banda mi dice di fermarmi, perché stasera all’accampamento si festeggia il
successo dell’ultima rapina e quindi è giusto che anch’io mi unisca alla festa,
la prima, in fondo, dalla rovinosa fuga da Blackwater. Mi prendo una birra, mi
siedo accanto al fuoco, ascolto uno dei membri più anziani della banda
raccontare una storia della frontiera, ad un certo punto dal gruppo delle
signore si alza un canto folk, mi unisco anch’io, ci uniamo tutti. L’alcol,
lentamente, fa effetto, personaggi che di giorno sembrano essere austeri,
controllati, si lasciano andare, addirittura, mentre giro nell’accampamento,
vedo una coppia, distante dal clamore, che balla al suono lontano della
fisarmonica alla ricerca di un po’ di intimità.
Quello che sto vivendo non è una
sorta di filmato interattivo, è qualcosa di un po’ più profondo. Il gioco mi
sta obbligando a fermarmi, a interrompere un flusso esperienziale su cui io (di
norma) dovrei avere il totale controllo e che dovrei avere il diritto di
considerare continuo (svolgo una missione, poi un’altra, poi un’altra ancora e
così via). Mi sta privando, apparentemente, di un’esperienza ma, al netto dei
fatti, mi sta restituendo tutto ciò che mi ha tolto in termini emotivi
immergendomi in un’inaspettata slowness, in una lentezza, in una pace
contemplativa fatta di dettagli, delicatezza che riempie questo momento
apparentemente fermo nella narrazione. Raramente, nel panorama videoludico
contemporaneo si è vista un’opera capace di trattare il portato sentimentale,
il ritorno empatico dei personaggi nei confronti del giocatore alla stregua di
una vera e propria appagante ricompensa simile a quelle che si ricevono al
completamento di un’azione di gioco ben più dinamica.
21 Novembre – La Morte Di Bojack
Oggi hanno sparato a Bojack.
Bojack è il mio cavallo, un purosangue inglese che ho domato poco dopo l’inizio
del gioco e che ero riuscito a portare al massimo livello d’intesa con il suo
cavaliere. Stavo passeggiando per la mappa e un incontro casuale mi coinvolge
in uno scontro a fuoco. I nemici sono troppi, faccio per scappare ma un colpo
di fucile colpisce il cavallo in pieno e lui (già malmesso) stramazza al suolo.
Mi nascondo e finisco i nemici, poi torno da lui. Mi rendo conto troppo tardi
però che non ho oggetti per curarlo e perciò non mi resta che constatarne la
morte. Si rifà prepotentemente sotto la sensazione che voglia proprio l’empatia
che il giocatore sviluppa nei confronti del mondo di gioco come uno dei
principali strumenti narrativi del progetto Rockstar. Un avvenimento di solito
senza importanza (e dopotutto, di nuovo, quante auto “personali” abbiamo
distrutto o ci sono state distrutte durante le decine di ore giocate all’open
world di turno?) assume una sfumatura nuova. Emerge un’affezione del tutto
inedita nei confronti di quello che a tutti gli effetti è un asset digitale,
un’affezione che va al di là del mero possesso (“è il mio cavallo quindi mi
dispiace se muore perché lo perdo). Qui qualcosa in te sembra rompersi, anche
se solo per un singolo istante e anche se tu non voglia ammetterlo a te stesso,
perché hai appena perso quello che è a tutti gli effetti il tuo compagno di
viaggio, un’entità il cui respiro vitale riesci a percepire in ogni istante, il
cui peso specifico diventa essenziale, soprattutto quando sei solo, soprattutto
quando cavalchi in solitaria nelle praterie, nel corso dei lunghi viaggi
esplorativi. C’è lui accanto a te.
Bojack è morto, evviva Bojack.
22 Novembre – Caccia Alla Schofield
Una voce su internet dice che in
una delle botteghe di Valentine c’è un’arma rara nascosta in un sottoscala. Per
raggiungerla devo rapinare l’armaiolo e costringerlo ad aprire la camera di
sicurezza. Entro nella bottega, tiro fuori la pistola e gliela punto alla testa
intimandogli di fare come gli dico. Percepisco in me una strana cura nei gesti,
il dovermi attenere ad una parte, ad un ruolo, fa in modo non solo che non apra
il fuoco all’impazzata nel momento in cui scopro che la camera blindata è, di
fatto, occupata da nemici ma che riesca a considerare un fallimento il fatto
che una mia pallottola vacante di fatto ferisca gravemente l’innocente armaiolo.
La ricerca riesce per metà dunque. Ho la pistola rara nelle mie mani ma il
panico creato in città dalle mie azioni mi fa lanciare in una fuga precipitosa
e sghemba da cui sopravvivo quasi per miracolo. È una sensazione di panico
sommerso che raramente mi sono ritrovato a provare. Non è, per carità, nulla di
eclatante, tuttavia si presenta come una sorta di ronzio che non mi fa agire
lucidamente. La sensazione che le mie azioni siano un’inconscia conseguenza
dello stesso panico di Arthur Morgan, la cui rapina apparentemente da manuale è
appena andata a rotoli e ha rischiato di coinvolgere la vita di un innocente, è
fortissima.
25 Novembre – L’Inganno E Il Locus Amoenus
La missione di oggi, quasi
sottovoce, finisce per ribaltare, ancora meglio, per negare, il vero e proprio
meccanismo ludico alla base di un gioco come Red Dead Redemption 2. Il mio incarico consiste infatti
nell’insegnare a pescare al piccolo Jack, l’unico bambino all’interno
dell’accampamento. Chiaramente è un tutorial travestito da missione principale,
fatto per far comprendere al giocatore le meccaniche di una delle attività
collaterali del gioco, appunto la pesca, ma ciò che stupisce del contesto in cui
si sta svolgendo questo tutorial è altro in realtà.
Al di là di un filmato che serve
a far procedere la storia all’interno di questa missione non c’è nulla al di là
della sequenza di pesca che ne è il suo centro. Tutto inizia e finisce lì,
tutto parte da Arthur Morgan che mostra a Jack come pescare e ha le sue
deviazioni dal percorso prestabilito solo nei momenti in cui il piccolo Jack si
allontana da lui, quasi annoiato dalle spiegazioni. Il giocatore è volutamente
ingabbiato in una struttura fissa da cui non si può uscire finché non lo decide
la diegesi una struttura che, soprattutto, non gli fornisce in maniera
tradizionale quell’intrattenimento a cui colui che ha il controller in mano è
sicuramente abituato. Una missione del genere è la prima (ma ce ne sono state
altre in precedenza più leggere, anche in questo momento tutto sommato iniziale
del gioco), che porta l’esperienza ludica a sclerotizzarsi, a piegarsi su sé
stessa, ad autodistruggersi. Se non fosse che, a ben guardare, la parentesi
legata al puro “entertainment”, all’intrattenimento, in casi come questo ha
subito soltanto un (per quanto inaspettato) processo di traslazione. Si è
trasformata, prima di tutto, in appagamento sensoriale ed emotivo ma
soprattutto, ha cambiato le sue fondamenta, che dalla dinamicità di una
sparatoria, di un inseguimento a cavallo, sono diventate gli input
naturalistici legati al silenzio, ai versi lontani degli animali, a tutto ciò
che in sostanza anima quel locus amoenus in cui la missione si svolge. La
slowness, la lentezza, la contemplazione, tornano protagoniste dunque e, a
questo punto, diventano strutture essenziali del significato insito all’interno
del nuovo progetto Rockstar Games.
27 Novembre – Il Cercatore D’Oro
Mentre sto per raggiungere la
località di inizio di una nuova missione decido di fare una nuova deviazione.
Vengo attratto da una baracca che si staglia sulla sponda di un lago. È notte e
lo considero un segnale che mi invita a fermarmi un attimo e a riprendere il
cammino al mattino. Mi avvicino alla casa ma improvvisamente sento una voce
poco lontana. Mi accorgo che un cercatore d’oro si sta lamentando ad alta voce
della sua sfortuna mentre pulisce dei detriti accanto al fiume nella speranza
trovare delle pepite.
Probabilmente, capisco, la casa è
sua. Mi avvicino ma lui mi intima di allontanarmi (è evidentemente terrorizzato
che possa perdere la sua eventuale ricchezza). Memore del mio scontro con
l’altro avventuriero di qualche giorno fa mi allontano ma continuo comunque a
tenerlo sotto controllo. Passano pochi secondi e il cercatore trova, alla fine,
effettivamente, una pepita d’oro.
Capisco il meccanismo del gioco.
La diegesi ora mi sta mettendo di fronte ad una scelta morale forte e al
contempo straordinariamente sottile. Sarò in grado di uccidere a sangue freddo,
in piena notte e in un posto senza testimoni, quello che di fatto è un innocente,
pur di avere quella pepita?
Apparentemente non sento il peso
emotivo di una scelta del genere. Faccio compiere ad Arthur uno scatto in
avanti e blocco a terra il cercatore d’oro prima che possa allontanarsi troppo.
Il gioco mi dà la possibilità di lasciarlo andare o di ucciderlo e aggiunge un
po’ di pepe al destino del vecchio arricchendo il tutto con le sue urla
disperate e i singulti con cui prova a divincolarsi dalla mia presa. Alla fine
scelgo di ucciderlo spezzandogli il collo.
Il progetto Rockstar sembra
riporre straordinaria cura nella rappresentazione della morte dei personaggi in
gioco, dando uguale dignità sia ai protagonisti che ai comprimari e alle
redshirts, agli agnelli sacrificali, agli ignoti ostili che vengono uccisi come
carne da macello. Me ne accorsi per la prima volta durante la rapina al treno,
in cui tutti i miei nemici erano straordinariamente dettagliati, avevano un
peso, erano addirittura perfettamente distinguibili gli uni dagli altri in base
alle ferite a causa delle quali erano morti, ne ho la conferma adesso. Il
momento in cui la vita abbandona il corpo del cercatore d’oro è rapido ma
pregnante, mi colpisce in modo inaspettato con tutto il peso della scelta
morale compiuta da me, attraverso il mio personaggio, qualche istante prima.
Non riesco a levarmi dalla testa che in questo momento io sia uscito dal
personaggio, che uno come Arthur Morgan non avrebbe mai ucciso una persona del
genere e che quindi io abbia fallito la prova a cui mi ha appena sottoposto il
gioco.
30 Novembre – Gita A Pleasance
Mentre sono in viaggio per
raggiunge la località in cui svolgerò una delle missioni secondarie mi rendo
conto che un centinaio di metri a est della strada che sto percorrendo c’è un
agglomerato di case. Capisco che è una di quelle situazioni che meritano di
essere ulteriormente approfondite, esplorate. Ho effettivamente ragione perché
messomi sulla strada per raggiungere questa cittadina vengo accolto dopo poco
da un cartello rovinato, ingiallito dal tempo, sbilenco, che mi dà il benvenuto
a Pleasance. Scendo da cavallo, mi guardo intorno, esploro la zona e scopro che
Pleasance è una città fantasma, ancora meglio, Pleasance è la Chernobyl
dell’universo di Red Dead Redemption. A Pleasance è scoppiato un focolaio di
una qualche malattia non specificata e la popolazione non infetta, per
salvarsi, è stata costretta a scappare e a cambiare zona in cui insediarsi
dalla sera alla mattina, tentando al contempo di evitare il propagarsi
dell’infezione raggruppando i cadaveri nelle stalle e in alcune case, chiudendo
le porte a chiave e scrivendo su di esse minacciosi avvertimenti per non farle
riaprire per nessun motivo (qui il richiamo al “Don’t Open, Dead Inside” di The
Walking Dead è palese). A Pleasance tutto è rimasto fermo al giorno della
fuga. Alla fine mi rendo conto che posso entrare solo nella scuola ma l’impatto
che questo posto ha su di me non cambia. Passo mezz’ora tra i dettagli del
luogo, soffermandomi sulle scritte alle pareti delle case, sulle mosche che
ronzano ancora attorno ai granai, sul silenzio che ammanta l’ambiente, sulle
scritte che decorano le lapidi del piccolo cimitero. Alla fine mi dimentico
della missione che volevo svolgere e passo a Pleasance tutta l’ora in cui avevo
deciso di giocare, quasi che tutte le emozioni che avrebbe potuto darmi una
qualsiasi sparatoria mi fossero state comunque date, amplificate, dallo spazio,
dall’ambiente, dall’atmosfera, dal mio lasciarmi consapevolmente assorbire
dalla volontà di scoprire l’ignoto.
Linee Guida Per La Teorizzazione Di Un’Esperienza Antiludica
Si è scritto molto in merito a Red Dead Redemption 2 fin dalla sua
uscita. L’aggettivo con cui lo si è definito nella maggior parte dei casi è
“antigioco”, un aggettivo che si basa, spesso, sull’immedesimazione che il
giocatore instaura con il personaggio giocato, un livello di immedesimazione
talmente alto che ti porta, semplicemente, a dimenticare, per la parentesi in
cui hai il controller in mano, che sei all’interno di un videogioco e ad
ammantare l’esperienza che ti coinvolge di un qualcosa di molto simile alla
realtà.
È vero il progetto Rockstar Games
è anche questo ma probabilmente si arriva alla teorizzazione di questo elemento
antiludico che lo caratterizza così profondamente compiendo qualche passaggio
ulteriore che già la mia esperienza di un mese di immersione nel mondo di gioco
ha individuato con evidenza.
Red Dead Redemption 2 sembra annullare, traslandola, trasformandola
in qualcosa di diverso ma di ugualmente pregnante, l’esperienza di gioco del
giocatore procedendo su due binari squisitamente paralleli. Nel primo caso la
diegesi si impegna a depotenziare e confondere il nostro ruolo e le nostre
certezze nel momento in cui le nostre azioni si assimilano a quelle di Arthur
Morgan. Non spariamo più con la stessa libertà con cui lo facciamo in altri
titoli action, uccidere un NPC a sangue freddo diventa un gesto
straordinariamente difficile, siamo costretti a passare lunghe parentesi in cui
non possiamo avere un impatto apprezzabile sul mondo di gioco, veniamo privati
della libertà di compiere gran parte delle scelte che di solito un giocatore
compie con il suo controller in mano, prima di qualsiasi altra cosa siamo ai
comandi di un personaggio straordinario che è l’entità più lontana da un eroe
videoludico possa mai esistere. Al contempo, su un percorso parallelo, Red Dead Redemption 2 sembra voler
annullare il concetto stesso di storyline, di percorso narrativo prestabilito.
Il progetto di Rockstar Games pare piuttosto incarnare perfettamente il
paradosso del Roamer, del ramengo, dell’avventuriero, colui che sa che strada
prendere ma che al contempo viene costantemente e volutamente distratto da
qualcos’altro che stimola il suo sense of wonder, la sua curiosità, il suo desiderio
di avventura innato, prova ne sono le volte in cui, durante la mia avventura,
mi sono ritrovato a cambiare strada, a cambiare piani, spinto da curiosità
verso qualcosa di più grosso, ma una testimonianza abbastanza pregnante in
questo senso ce la offre la diegesi del gioco stesso che spesso ci lascia
volutamente indietro rispetto agli altri personaggi, magari al termine di un
raid in una qualunque casa, per permetterci di esplorare da soli l’ambiente
circostante.
Eppure, pur nascendo al crocevia
tra negazioni così profonde, Red Dead
Redemption 2 si presenta al giocatore come una straordinaria esperienza
artistica, visiva e ludica forse proprio perché ha il coraggio di sfidarlo, di
inserirlo in un contesto atavico, di privarlo dei punti di riferimento canonici
per poi ricompensarlo con un’emozione, una pienezza, una soddisfazione nata
dalla sottrazione e nutrita costantemente da questo universo essenziale da cui
lo stesso gioco nasce. Nella sua complessità, nella sua grandezza, il centro di
un progetto come Red Dead Redemption 2 pare
proprio essere la semplicità, il minimalismo con cui parla al giocatore.
Alessio Baronci
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