- Quando sei sul tetto di un palazzo, a cosa pensi?
- A cosa altro posso fare.
A volte capita che un intero percorso artistico si
condensi e si consumi in una singola opera. A volte capita che un’anima covi in
sé un discorso talmente vasto, profondo e radicale, da riuscire a esprimerlo
solo con una potente, sconcertante, prima e ultima emissione di voce. A volte
capita che il mondo costruito ed evocato da un testo narrativo e quello esterno ad esso,
dove si scrive la parabola del suo autore e degli spettatori, si contaminino dolorosamente,
fatalmente. A volte accadono tutte queste cose insieme, come per An Elephant Sitting Still (sbarcato
pochi giorni fa alla Tredicesima Festa del Cinema di Roma): esordio e
testamento a un tempo, scritto, diretto e montato da Hu Bo, regista cinese
suicidatosi ventinovenne dopo averne ultimato la lavorazione.
In casi limite come questo è difficile, forse
impossibile, forse nemmeno così giusto, separare del tutto la riflessione
sull’opera, la sua esperienza e la sua lettura, dalla consapevolezza del
destino del suo autore: per la disperazione, tormentosamente compressa e
smisuratamente dilatata a un tempo, del film e dei suoi personaggi, ma anche (e
soprattutto) perché nelle quattro, densissime ore di questo prodotto eccezionale
(nella durata e non solo) sembrano essere contenuti due, tre, cinque e più lungometraggi
possibili. Come se quel bisogno a volte maledettamente urgente di dire ciò che
dalla vita si è ascoltato, bisogno sempre diverso ma comune ad ogni artista, nel caso
di Hu Bo fosse emerso tutto insieme, e avesse trascinato con la sua onda la
stessa coscienza che l’aveva concepito. An
Elephant Sitting Still è una gigantesca stella nella cui tetra, soffocante
malinconia sembra ardere un’intera potenziale carriera, una galassia di storie
e di sguardi, una visione del e sul mondo già tremendamente matura e rigorosa,
che tantissimi altri autori impiegherebbero lo spazio di una vita e di una
filmografia ultradecennale ad articolare.
Una visione, un affresco, un mosaico di figure che,
vista la sua portata, non si può e non si deve pretendere di ingabbiare e
depotenziare nella sintesi di un giudizio, di un riassunto, di una recensione.
Se ne possono, semmai, (ri)evocare e interpretare alcuni tasselli e fili tra i
più pregnanti. A cominciare da quell’elefante, presenza-assenza enigmatica che
informa di sé l’intero film. In una città del nord della Cina, Manzhouli, c’è
un elefante che passa la sua intera vita seduto. Qualcuno lo
minaccia con un forcone, molti vengono a fargli visita, qualcuno a volte gli dà
da mangiare, ma lui ignora tutti, indifferente al mondo e alla vita. È con la
descrizione di questo (invisibile, forse irrappresentabile) elefante che inizia
il film, mentre il montaggio ci presenta alcuni dei protagonisti, alternandoli
all’inquadratura di un terreno bianco, ghiacciato, su cui qualcuno avanza. Cosa
vuol dire questo elefante, cosa ha di significativo al punto da diventare, nel
corso del film, la meta verso cui sceglieranno di tendere tutti i personaggi
principali? Se interroghiamo loro, gli esseri umani del film-affresco di Hu Bo,
riceviamo risposte evasive, criptiche, insoddisfacenti. C’è chi trova la
(non-)storia di questo elefante «divertente», ma non sa o non vuole spiegare
cosa ci sia di divertente. Un altro dice esplicitamente che l’elefante «non gli
interessa», eppure vuole andare lo stesso a vederlo. Una risposta possibile da parte nostra è che, forse, nessuno tra quei personaggi (delle cui aride,
gelide, plumbee parabole siamo testimoni) sa, ha mai saputo o sa più dove altro
andare.
Quell’elefante seduto, allora, così pesante e così
evanescente nell’immaginazione di ciascuno, è allegoria della necessità estrema
di colmare il vuoto esistenziale di alcuni figli minori della Cina e del mondo
contemporanei, rigettati da tutto e da tutti, frutto, vittime ed esemplari
anonimi di un paesaggio sociale e umano ridotto al deserto ghiacciato visto in
apertura. Sono personaggi diversi per sesso, età e condizione sociale, eppure
tristemente complementari nell’abisso interiore da cui promanano e in cui
sprofondano i rispettivi pensieri, propositi, gesti: ogni loro scelta, anche la
più drammatica, vede sgonfiato, depotenziato, degradato il suo valore, la sua
portata, il suo senso. Ciò che conta e opprime davvero è la solitudine di
ognuno di loro, l’intima desolazione specchio delle banalmente complicate relazioni
che vivono all’esterno, la comune nausea di fronte all’agonia di esserci.
L’inferno urbano odierno, globalizzato nelle sue alienazioni e depressioni, non
sembra essersi mosso di un centimetro dal mondo in cui erano gettati gli
antieroi e antipersonaggi della letteratura (e del cinema) esistenzialista. Quel
mondo, di dentro e di fuori, è rimasto fermo, seduto e sempre più immerso nella
propria indifferenza, proprio come l’elefante. E i piccolissimi, fragilissimi
stranieri di Hu Bo, adolescenti assassini per caso e per vuoto, pensionati scaricati da società e familiari, ragazze impossibilitate a comunicare in modo
autentico con chiunque, criminali nichilisti di terz’ordine, alla fine non
possono permettersi altro (non-)senso che quell’elefante, simulacro beffardo
delle loro fughe dal e verso il nulla.
Ma l’elefante è anche, inevitabilmente, il film
stesso, nella sua mole come nella struttura formale: quasi duecentoquaranta minuti di
inderogabile antispettacolarità (tutti fuori campo o fuori fuoco i passaggi più
drammatici), di inquadrature lunghe, a volte lunghissime e fisse, di immagini grigie
(tra cieli perennemente intasati di nuvole e luci distanti che gettano ombre
tanto più scure), dialoghi interrotti e dilatati anche (e soprattutto)
attraverso i silenzi (gonfi di inesprimibili non-verità). Già, perché tutti,
prima o poi, si ritrovano a parlare con tutti, nell’ordito di perdite e
rifiuti, scelte immotivate e mezze azioni intessuto dal film, ma (quasi) nessuno
comunica davvero. Lo stesso uso della sintassi filmica sembra ribadirlo,
escludendo nelle scene di dialogo ogni dialettica di campo e controcampo,
dunque ogni (cor)rispondenza tra il punto di vista di un personaggio e l’altro.
Il vuoto di empatia e reciproca comprensione è radicale, sconcertante, e si può
senz’altro attribuire parte della colpa a una società mercificata e classista
che nel film e dal film emerge a più riprese: dove i destini di abbandono,
povertà ed emarginazione degli individui sembrano (ancora e più che mai) già
spietatamente inscritti nel futuro di ciascuno; dove le istituzioni (famiglia,
scuola) sono ruderi di se stesse, formicai di egoismi e cinismi (sempre
negative e poco autorevoli le autorità, genitoriali e non, su tutti il personaggio
del vicepreside); dove tanto le generazioni più giovani quanto le più vecchie
sono vittime delle barriere e ostilità di un consesso sociale che non offre né
assistenza né prospettive (durissima la sequenza della visita all’ospizio, già
oltretomba popolato di spettri senza volto).
E tuttavia, l’abisso di incomunicabilità e non-senso
disegnato dal film-elefante non si può ridurre alla disumanità del contesto
sociale, così come la sua disperata ispirazione non si esaurisce di certo in
una componente di denuncia (neo-)neorealista. Il vuoto è più ampio e profondo (forse
senza fondo), come gli stessi
protagonisti dichiarano più di una volta: è la vita stessa ad essere
«un’agonia», inutile spostarsi nel tempo o nello spazio («nuovo posto, nuove
sofferenze»), ci si troverà solo a costeggiare lati diversi dello stesso
baratro che è la condizione umana. Ma nemmeno tale pessimismo cosmico, tale abisso di dolore e isolamento, sembra
risolvere compiutamente le sfaccettature del film. C’è, in aggiunta, nella
dimensione corale del racconto che arriva alle estreme conseguenze con l’ultima
parte, un’ambiguità di fondo, un contraltare paradossale come il viaggio in
direzione di quell’elefante. Nello struggente, insensato, estremo viaggio dei
protagonisti e nelle desolate vicende che lo preparano, ci sembra di
scorgere il germe pallido, sbiadito, intirizzito, di un afflato interpersonale
che (si) respira tanto nelle ultime inquadrature “collettive” quanto in alcuni
dei più significativi elementi simbolici della vicenda: come la stecca da
biliardo, oggetto rubato e poi donato (tanto più gratuitamente in quanto non
voluto dall’altro) che unisce emblematicamente i percorsi di Yu Cheng, Wei Bui
e di Wang; come il biglietto autentico comprato da Yu Cheng al ragazzo, o come
il legame (mai retoricamente enfatizzato) tra il nonno e la nipotina. Un
indicibile bisogno d’amore e solidarietà sembra legare tutti questi personaggi
e rilanciare il loro folle e vuoto cammino finale come unica e ultima
(anti)epica possibile, un’epica del comune riconoscersi e sostenersi nel vuoto
angosciante e inesorabile dell’esistenza.
In questo coacervo elefantiaco di vuoti reali e
pieni potenziali, di contraddizioni e continuità, di luci e ombre, di parole e
silenzi, ciò che resta indiscutibilmente, al termine della proiezione, è
un’esperienza esistenziale, prima ancora che estetica o narrativa.
Un’esperienza che supera i confini del film per parlare di molto altro: di un
autore, di un’epoca, di un mondo, di un’umanità e dell’umanità, di un elefante
che continuerà a sedersi, imponente e mai del tutto decifrabile, come un
capitolo d’ora in avanti non aggirabile del cinema contemporaneo.
Emanuele Bucci
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