L’unica domanda da farsi, in una
situazione del genere, è se le aspettative iniziali siano state rispettate o
no.
Perché se ti chiami Drew Goddard
e nel 2012 hai firmato quel Cabin In The
Woods che in poco più di due ore, unendo l’ironia, l’atteggiamento più o
meno parodico, il fare dissacrante ad una lucida e accurata conoscenza dei
meccanismi metatestuali e delle regole del genere in cui si inserisce, diventa
il luogo artistico in cui si raccoglie il precipitato di trent’anni di cinema
horror e l’intero sistema spettacolare che regge il genere viene passato al
setaccio attraverso una lettura critica (che finisce, a tratti, per piegarsi
anche su sé stessa diventando autocritica) e una lucida solidità che ha
dell’invidiabile. Merito dell’amico Joss Whedon che Cabin In The Woods lo cura, lo produce e lo scrive insieme a lui,
questo senz’altro, ma è ragionevole comunque considerare, proprio a causa di
quel felice polverone che il suo esordio ha sollevato, Drew Goddard come una
delle voci più promettenti del cinema di genere contemporaneo e dunque, proprio
per questo, un progetto come Bad Times At
El Royale è il contesto ideale in cui saggiare lo stato di salute della sua
autorialità, vuoi anche perché si dà per scontato che il regista americano
torni a giocare con quella riflessività e con quel meccanismo
metacinematografico che ha segnato il suo primo progetto, stavolta, magari,
potenziato dalla maggior ambizione, dalla maturità, magari anche da un budget
più nutrito.
E per certi versi non si sbaglia,
quando si interpreta Bad Times At El
Royale come una prosecuzione di quel discorso già iniziato con Cabin In The Woods fatto di
destrutturazione e tentativo di fare un bilancio di tutte le dinamiche attorno a
cui si articola un determinato genere. Al suo esordio Goddard ha riflettuto
sull’horror, qui invece la sua attenzione si sposta sul noir ma i termini della
sua analisi sono praticamente identici: si prende un gruppo di personaggi
variegato, li si inserisce in un contesto ambientale capace di farli reagire e
si organizza la materia del racconto in modo tale da portare alla luce tutti i
lati critici del genere, del meccanismo produttivo, delle parti in gioco su cui
di volta in volta si posa l’attenzione di Goddard.
Se tuttavia l’approccio
sperimentale non cambia a subire una profonda variazione è proprio la modalità
in cui si sviluppano le argomentazioni dell’autore, ed è proprio qui che, nel
bene e nel male, si gioca la natura profonda di un film come Bad Times At El Royale.
Tutto potrebbe partire, in fondo,
dalla solidità degli elementi della messa in scena. La regia di Goddard è
rigorosa, tutta giocata sulle simmetrie, sull’equilibrio compositivo, su una
fotografia calda, organizzata attorno alle dominanti di colore, su un montaggio
accattivante e su una colonna sonora squisitamente retrò senza mai scadere
nella gratuita fascinazione per il passato.
La cura riposta dal regista nella
creazione del suo mondo è palpabile, il desiderio di offrire a quello straordinario
cast di attori che va via via a popolare l’El Royale il campo da gioco ideale
per permettere a ciascuno di loro di brillare in maniera indipendente dagli
altri è evidente.
Con Bad Times At El Royale Drew Goddard scopre dunque la passione per l’eleganza,
la patinatura, la stilizzazione, per una sorta di calore controllato,
artefatto. In un certo senso Goddard non sta facendo nulla di male, anzi, si
sta muovendo perfettamente in ossequio a quel piano che punta a ricreare l’estetica
patinata dei noir letterari e cinematografici ambientati tra gli anni ’50 e ’70,
ad uno sguardo più approfondito, tuttavia, basta poco per comprendere che in
realtà questo manierismo che di fatto ricopre la pellicola non è solo funzionale
al racconto ma costituisce anche la diretta conseguenza di una deviazione per
certi versi imprevista dell’approccio di Drew Goddard al materiale creativo.
Ma ci arriveremo.
Si parte con l’individuare la densità
tematica di Bad Times At El Royale. Goddard
non ha paura di dare in pasto a quel meccanismo ben oliato che è il suo film un
sacco di carne al fuoco da processare.
Il progetto può essere suddiviso
in almeno tre orizzonti interpretativi, dal più superficiale al più profondo.
L’hotel El Royale è per prima cosa il luogo fisico in cui il noir (inteso
come genere) viene analizzato e passato al setaccio e proprio dal giallo, dal
noir, ma anche dal thriller anni ‘70 il film preleva con non poca disinvoltura
gran parte del suo materiale costruttivo. Il concept alla base del progetto
ricorda un romanzo di Agata Christie, Le dinamiche della setta si rifanno senza
alcun dubbio ai crimini di Charles Manson ma non sarebbe troppo esagerato
individuare in esse anche una matrice prettamente “creativa”, “artistica”,
legata a tutte quelle pellicole che negli anni ’70 descrivevano il mondo delle
sette come “The Wicker Man”.
Addirittura ogni singolo personaggio coinvolto nella vicenda può essere
ricondotto ad una tipologia quasi Proppiana di un’entità tendenzialmente
coinvolta in una narrazione poliziesca, dallo sbirro sotto copertura, al
rapinatore in fuga, dalla femme fatale all’uomo con un oscuro passato. Bad Times At El Royale è il laboratorio
in cui si analizza e ci si confronta con approccio critico con un intero genere
ed in particolare è evidente il desiderio di concentrarsi sulla labilità che
permea questa galassia di narrazioni.
In primo luogo all’El Royale si incontrano otto persone che
si rapportano in modo assolutamente peculiare con la loro identità. La maggior
parte di loro la occulta (per lavoro, come l’agente dell’FBI, per scappare da
chi le dà la caccia come il personaggio di Dakota Johnson), alcuni arrivano a
negarla, altri a modificarla anche solo attraverso delle protesi (come la
cantante nera che quasi amplifica le sue peculiarità con una parrucca che la
definisce con ancor più forza come una corista della Motown), per altri ancora,
come il personaggio di Jeff Bridges, l’identità è un oggetto inafferrabile su cui
non ha controllo.
L’altro tirante che sostiene
questo primo strato del tessuto tematico è invece legato all’ambiguità del bene
e del male, di fatto un altro degli spunti tematici cardine della narrativa
noir. Goddard pone sotto al microscopio la malleabilità dell’animo umano, di
fatto neutrale, né buono, né malvagio, ma capace di fare e di intendere il male
se la posta in gioco è abbastanza alta da permetterne l’opportuna detonazione.
Il mondo di Bad Times At El Royale è
in fondo una landa selvaggia in cui Dio è presente ma assolutamente
indifferente ai destini dei suoi figli, che dunque finiscono per sottomettersi
al puro istinto di sopravvivenza, unico codice morale ammissibile in situazioni
del genere.
Emblematica, in questo senso, è l’intera
sequenza in flashback che mostra l’ingresso e l’iniziazione delle due giovani
protagoniste nella setta di Billy Lee, in cui proprio il carismatico santone
esplicita questa lettura nichilista del reale che è anche una delle regole
della narrativa noir portata alla luce.
Al di sotto di questo primo
strato tematico, Goddard sembra poi voler organizzare una riflessione attorno
alla pura azione del guardare, sia nella sua accezione attiva che passiva. L’El Royale (tra l’altro in pieno ossequio
ad una delle ambientazioni più sfruttate nei romanzi di James Ellroy), è un
hotel che la C.I.A. ha utilizzato negli anni per la sorveglianza di politici ed
elementi di spicco della criminalità organizzata. All’El Royale si raccolgono
informazioni sensibili e, nella maggior parte dei casi le si usano per
ricattare i potenti o i mafiosi di turno alla ricerca di questo o quel favore.
Ogni camera dell’albergo possiede dunque un falso specchio dietro al quale c’è
lo spazio per l’alloggiamento di un impianto di ripresa audio/video ed è colma
di microfoni direzionali così da catturare ogni minimo sospiro dei suoi
occupanti.
Gradualmente ogni personaggio
scoprirà questa struttura di sorveglianza e finirà per approcciarsi ad essa
come a un vero e proprio dispositivo scopico con cui guardare all’interno delle
stanza all’insaputa dei suoi occupanti. Il film di Goddard è letteralmente
innervato attorno a quest’azione scopica e l’azione dello sguardo finisce
essere un vero e proprio strumento cardine attorno a cui si articola la
narrazione. Bad Times At El Royale si
struttura in primo luogo in quadri (le azioni che si svolgono all’interno delle
singole stanze) osservati dagli altri personaggi, entità che sperimentano su di
loro tutte le emozioni che scaturiscono a seguito del prendere coscienza della
loro passività di fronte a ciò che stanno vedendo ma molto più interessante in
questo senso è annotare quanto tutto il tessuto narrativo, meglio ancora, la
vera e propria diegesi, sia in qualche modo affetta da una sorta di “febbre
dello sguardo”.
L’azione del guardare e dell’essere
guardati, con il procedere dell’azione quasi esonda dal sistema narrativo e
finisce per essere ricreata dalla diegesi ad ogni momento utile. Come a voler
indicare che non c’è bisogno di un sistema di sorveglianza camuffato da camera
d’albergo per tematizzare una riflessione attorno alla pulsione scopica la
diegesi letteralmente pone di fronte a chi guarda occasioni create ad arte per
stimolare il suo sguardo o che comunque hanno proprio l’azione del guardare al
loro centro. Pensiamo alle frequenti esibizioni di Darlene Sweet, al modo in
cui, durante una di esse, la camera finisce per girarle attorno facendo leva
sul carattere seduttivo della figura femminile, pensiamo al combattimento d’iniziazione
organizzato da Billy Lee, a come noi, lui e le consorelle siamo tutti
spettatori passivi (e quasi compiaciuti) di ciò che stiamo osservando,
pensiamo al particolare del mirino del
cecchino impegnato nell’uccisione dei Vietcong, di fatto una delle primissime
immagini con cui ci accoglie il flashback dedicato al personaggio che occupa il
ripostiglio dell’albergo, pensiamo, anche più semplicemente, a come proprio il
receptionist sia colto, in una sequenza della pellicola, mentre guarda al
telegiornale un sensazionalistico servizio su un efferato omicidio avvenuto
nella zona di Los Angeles. In ultimo, ma non per importanza, riflettiamo su
quanto uno degli espedienti narrativi del film (il microfilm che il personaggio
di Jeff Bridges vorrebbe recuperare) sia organizzato totalmente attorno alla
tentazione di guardarlo che stimola nei vari personaggi.
Uno dei livelli interpretativi di
Bad Times At El Royale sembra dunque
strutturarsi attorno alla tematizzazione di una delle pulsioni cardine del
nostro inconscio ma, forse ancora più interessante, è il discorso che la
diegesi compie attorno ad un altro tipo di inconscio: quello collettivo degli
Americani.
Il film di Goddard, adottando un
approccio pienamente metatestuale, organizza attraverso il flashback (l’apertura
verso il passato della narrazione) una riflessione critica attorno al portato
traumatico che serpeggia più o meno sotterraneamente nella storia passata degli
U.S.A. In questo senso, la gran parte dei flashback sono delle vere e proprie
stilettate che colpiscono chi guarda e che hanno al loro centro alcuni dei
momenti più oscuri della storia della Terra Delle Opportunità, dalla setta di
Charles Manson alla questione nera, dal Vietnam alle ingerenze dei servizi di
intelligence nella politica americana.
Un passato orientato dunque, che
aggredisce lo spettatore, che chiede di essere processato, approcciato con
senso critico, che porta indubbiamente chi guarda a fare i conti con tutto ciò
che invece si vorrebbe evitare, magari girandosi dall’altra parte.
Ciò che fa più male a questo
punto è riconoscere quanto un progetto così denso di contenuti e tematiche, ben
girato, ben organizzato, interessante, finisce, tuttavia, per incepparsi
inesorabilmente. Le motivazioni di questo malfunzionamento si possono ritrovare
in quella stilizzazione a cui si è accennato qualche riga fa a mo’ di premessa.
È abbastanza chiaro che Goddard,
con Bad Times At El Royale, cerca di
confezionare il suo prodotto più commerciale e aperto al grande pubblico. Ne
cura fin nei minimi dettagli la messa in scena, si impegna a ottenere una
dimensione visiva attraente e di facile approccio per lo spettatore medio che
si confronterà con la sua opera e (purtroppo?), questo suo desiderio di
apertura ai più ampi strati di audience possibile coinvolge anche il tessuto
puramente tematico.
Goddard organizza dunque un film
facile da comprendere e da interpretare per lo spettatore medio, tanto da
offrirgli lui stesso le chiavi per approcciarne il senso profondo, tornando
continuamente, quasi fino alla nausea, sui temi chiave della sua pellicola,
siano essi quelli legati alla pulsione scopica, agli elementi del noir. Questo
continuo desiderio di chiarezza finisce per far chiudere il film in sé stesso,
privandolo di interpretazioni ulteriori, diverse da quelle già presentate da
Goddard stesso, fino ad affossarlo in un eccesso di didascalismo che gli
impedisce di raggiungere il suo pieno potenziale.
Bad Times At El Royale non è un vero e proprio passo falso di Drew
Goddard. Il film rimane una pellicola scritta e realizzata con cura e passione,
capace di garantire una narrazione appassionante e coinvolgente ai suoi
spettatori, senz’altro, al di là di questo, rimane l’amarezza di riconoscere
quanto l’autore di Cabin In The Woods abbia
in questo caso lasciato perlopiù sopito quel sentimento sovversivo che lo ha
portato a giocare con così tanta scioltezza con le letture metacinematografiche
e i meccanismi di genere nel suo primo film.
Un’amarezza che diventa ancora
più tangibile nel momento in cui ci si rende conto che le idee migliori della
pellicola (la destrutturazione dell’intreccio, la complessa metafora che vede
Billy Lee come unico individuo esterno al meccanismo e dunque l’unico che ne
comprende le regole essenziali, esattamente come un regista) siano venute fuori
in tutti quegli istanti in cui quell’istanza sovversiva si è liberata dal giogo
della commercialità. Se solo le fosse stata data un po’ più di corda, in questo
momento staremmo parlando di un film diverso.
Alessio Baronci
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