Spesso tutto si riduce a
simbolo, anche solo per categorizzare e poi comprendere ciò che vediamo. Se
dovessimo raccogliere tutti i significati, gli spunti, alle spalle del Macbeth di William Shakespeare attorno a
qualcosa di immediatamente richiamabile alla mente, probabilmente verrebbe
facile ricreare un’immagine, anche grezza, organizzata attorno al protagonista
della storia mentre, seduto sul suo trono, contempla lo scenario di distruzione
che ha portato alla sua incoronazione.
A tratti, sul suo volto, traspare una nota malinconica, forse dovuta alla peso del rimorso, ma in buona sostanza Lord Macbeth appare spavaldo, pronto a confrontarsi con chiunque abbia a tiro perché tanto, come si ostina a ripetere durante il combattimento finale con MacDuff: “non posso morire perché nessun uomo nato da donna può uccidermi”. Un’altra era, un altro orizzonte creativo. Se dovessimo riassumere in un’immagine la lettura che di Macbeth dà Justin Kurzel con il suo film quello a cui ci ritroveremmo davanti sarebbe qualcosa ai limiti del destabilizzante. Tutti gli input si raggrumerebbero attorno a quel nucleo simbolico costituito da ciò che accade negli ultimi minuti del film, attorno a quella vera e propria eresia nei confronti del bardo di Stratford che ha portato Kurzel ad optare per una totale riscrittura del finale della tragedia. Macbeth, stremato dal combattimento, decide, dopo aver duellato per un tempo che fino a quel momento è sembrato infinito con MacDuff, di lasciarsi uccidere dal suo avversario dopo essersi inchinato a lui, quasi avesse capito pienamente solo in quel momento di essersi spinto troppo oltre, di aver compiuto scelte che non possono essere definite strettamente “sue” (come si vedrà tra poco). Shakespeare fa morire Macbeth dopo avergli fatto sbagliare un colpo ed aver lasciato la guardia scoperta alla stoccata di MacDuff ma comunque in pieno combattimento, con l’avversario che impiegherà comunque parecchio tempo e sudore prima di poterlo eliminare definitivamente, Kurzel opta invece per una resa praticamente incondizionata, tanto irrazionale quanto incomprensibile. Shakespeare lo vede come una bestia che preferisce morire piuttosto che essere domata, agli occhi di Kurzel Macbeth è invece una strana figura a metà tra un demone ed un mortale redento ed assunto agli ordini celesti come i santi, egli è, in buona sostanza un uomo (e dopotutto, non è forse vero che in ogni uomo alberga un lato chiaro ed un lato oscuro?), la domanda a questo punto è perché?
A tratti, sul suo volto, traspare una nota malinconica, forse dovuta alla peso del rimorso, ma in buona sostanza Lord Macbeth appare spavaldo, pronto a confrontarsi con chiunque abbia a tiro perché tanto, come si ostina a ripetere durante il combattimento finale con MacDuff: “non posso morire perché nessun uomo nato da donna può uccidermi”. Un’altra era, un altro orizzonte creativo. Se dovessimo riassumere in un’immagine la lettura che di Macbeth dà Justin Kurzel con il suo film quello a cui ci ritroveremmo davanti sarebbe qualcosa ai limiti del destabilizzante. Tutti gli input si raggrumerebbero attorno a quel nucleo simbolico costituito da ciò che accade negli ultimi minuti del film, attorno a quella vera e propria eresia nei confronti del bardo di Stratford che ha portato Kurzel ad optare per una totale riscrittura del finale della tragedia. Macbeth, stremato dal combattimento, decide, dopo aver duellato per un tempo che fino a quel momento è sembrato infinito con MacDuff, di lasciarsi uccidere dal suo avversario dopo essersi inchinato a lui, quasi avesse capito pienamente solo in quel momento di essersi spinto troppo oltre, di aver compiuto scelte che non possono essere definite strettamente “sue” (come si vedrà tra poco). Shakespeare fa morire Macbeth dopo avergli fatto sbagliare un colpo ed aver lasciato la guardia scoperta alla stoccata di MacDuff ma comunque in pieno combattimento, con l’avversario che impiegherà comunque parecchio tempo e sudore prima di poterlo eliminare definitivamente, Kurzel opta invece per una resa praticamente incondizionata, tanto irrazionale quanto incomprensibile. Shakespeare lo vede come una bestia che preferisce morire piuttosto che essere domata, agli occhi di Kurzel Macbeth è invece una strana figura a metà tra un demone ed un mortale redento ed assunto agli ordini celesti come i santi, egli è, in buona sostanza un uomo (e dopotutto, non è forse vero che in ogni uomo alberga un lato chiaro ed un lato oscuro?), la domanda a questo punto è perché?
Sia chiaro, qui, malgrado
alcuni spettatori lo chiedano a gran voce, non si sta facendo un processo
all’atto creativo di Kurzel, non si sta facendo il terzo grado a questo pover
uomo al suo esordio che ha scelto, deliberatamente, di contravvenire al canone
Shakesperiano riscrivendo da sé il finale della tragedia, qui si sta tentando
di far compiere alla discussione un ulteriore passo di approfondimento partendo
soprattutto dal presupposto che, nei limiti del possibile, Kurzel ha fatto
esattamente quello che ci si aspettava facesse. L’adattamento cinematografico
di un’opera letteraria (o, in questo caso, di un’opera teatrale) non è mai un atto
creativo, quanto piuttosto un atto (ri)creativo. Il regista sceglie di lavorare
con un materiale preesistente (il testo letterario, il testo teatrale, con
tutto ciò che queste due entità comportano) così da fornire, attraverso di
esso, una propria lettura dei fatti, un proprio commento critico alla vicenda.
La sfortuna di Justin Kurzel, in questo senso, è stato trattare il Macbeth
Shakeseperiano come avrebbe fatto un regista teatrale, meglio ancora, un regista
d’opera lirica, prendendo il testo base e lavorando sopra di esso per trarre,
da parole scritte cinquecento anni fa, un significato ulteriore, una lettura
dei fatti per certi versi inedita, una serie di spunti ancora non indagati, allontanandosi,
per questa sua scelta, dall’approccio base che il regista cinematografico attua
nel momento in cui si trova a dover adattare su schermo un’opera letteraria,
quello a cui il pubblico del suo film è maggiormente abituato: porta in sala
tutto ciò che il budget ti permette di portare, il resto, quello che costa
troppo, lo inventi.
Kurzel in questo senso si è
comportato in maniera legittima oltreché, lasciatemelo dire, originale in un
certo senso e dunque, appurato ciò, non rimane che chiedersi cosa ha letto il
nostro nuovo giovane amico nel Macbeth
di William Shakespeare
.
In realtà possiamo prendere la
questione anche alla lontana, nei limiti del possibile. In ogni testo letterario
che si intende portare sullo schermo esistono degli snodi tematici che, a
differenza di tutti gli altri elementi presenti nella struttura narrativa, sono
variabili a tal punto da renderli veri e propri “luoghi” su cui lo sguardo
critico del regista di turno può soffermarsi e sistematizzarsi. Anche il Macbeth di Kurzel si muove su questi
stessi binari, solo che, spinto forse da quella sana arroganza che spesso guida
le scelte dei giovani, Justin Kurzel sceglie di giocare apertamente con il
fuoco. Dapprima sono cenni rapidi, piccoli segnali che indicano allo spettatore
più attento dove il regista intenda voler andare a parare con il suo progetto,
poi la realtà dei fatti ti colpisce allo stomaco ed a quel punto non puoi fare
altro che raccogliere i pezzi e fare mente locale su quanto accaduto. Tutto
sembra partire da un bambino, morto forse dopo uno o due anni essere venuto
alla luce, ancor meglio, possiamo dire che tutto sembra partire dal figlio di
Lord e Lady Macbeth. Shakespeare lo contempla nella narrazione, ne fa un rapido
accenno nel secondo atto attraverso le parole della madre che ha evidentemente
dovuto assistere alla sua morte, Kurzel invece sembra esserne letteralmente
ossessionato, tanto da variare alcuni piccoli particolari dell’intreccio lasciando
intatto il nucleo centrale con una cura ai limiti del filologico. Si parte con
l’inserzione di un prologo assente nella tragedia, che mostra la cremazione del
piccolo su una pira funeraria e si prosegue rendendo l’ultimo monologo di Lady
Macbeth prima del suicidio un dialogo allucinatorio tra la donna ed il fantasma
del suo bambino (a cui arriva ad intimare di “andare a letto” con quell’insistenza
che solo una madre può avere). Sia chiaro però che il bambino non è solo una
presenza fisica ma rimanda anche ad un’idea, quella di “materno”. Materno come
il trio di streghe che predice il futuro al protagonista, che sembrano far
parte di una stessa linea famigliare (la nonna, la madre, la figlia, la nipote
neonata che la figlia tiene in braccio), materni come i gesti con cui Lady
Macbeth prova a calmare il marito in preda ai sensi di colpa o ad incitarlo
quando lo vede temporeggiare sul da farsi piuttosto che procedere alla presa
del potere. E dunque, a questo punto, potremmo azzardare anche
un’interpretazione che raccolga sotto di sé tutti gli spunti posti in campo da
Kurzel fino a questo momento. Se per decenni, registi, commentatori, critici di
tutto il mondo, hanno letto in Macbeth una
sorta di tragedia dei sessi (tragedia femminile, tutta organizzata attorno a
Lady Macbeth per alcuni, tragedia maschile, sorta di racconto della caduta
morale di Lord Macbeth per altri), Justin Kurzel legge Macbeth come una vera e propria tragedia familiare, meglio,
tragedia della famiglia incompleta. Macbeth e sua moglie cercano l’unità, la
pace, l’equilibrio, come tutti, in fondo, e tuttavia, la loro vita, il loro
futuro, le loro aspirazioni vanno in pezzi nel momento in cui vedono morire il
loro figlio, che è in fondo la chiave di volta necessaria all’instaurazione di
quell’equilibrio di cui sopra. Appena l’ultima brace della pira si spegne, per
Kurzel cambia tutto.
Macbeth vede svanire di fronte a lui la sua discendenza,
il suo lignaggio, ma prima di qualsiasi altra cosa, la possibilità di vedere
qualcuno della sua famiglia sul trono (Macbeth è il primo a non vedersi nei
panni di un re, almeno in un primo momento, quando ancora non ha incontrato le
streghe); nello stesso istante, Lady Macbeth ha perso colui che avrebbe dovuto
allevare e proteggere, colui che per certi versi l’avrebbe fatta sentire
completa in quanto donna. La storia di Macbeth
secondo Justin Kurzel è quindi la storia di due persone che tentano in tutti i
modi di ricostruire quell’unità che hanno visto andare in mille pezzi in
maniera così violenta ed improvvisa. Ufficialmente spinto dal suo desiderio di
potere ma forse, inconsciamente, per ottenere per sé quel potere che non potrà
mai avere suo figlio, Macbeth inizia la sua corsa al trono, a tratti incerto ed
insicuro sul da farsi probabilmente perché quello a cui si trova di fronte è un
obiettivo per certi versi, imposto, a cui mai avrebbe pensato di ambire (e lo
stupore con cui accoglie le profezie delle tre streghe in questo senso dice
parecchio). In assenza di una figura da guidare, da istruire, da difendere e
proteggere, la Lady sua moglie vede nel marito a volte indifeso i tratti del
figlio che non ha mai avuto; ecco dunque che si rapporta a lui, come si diceva,
come una mamma premurosa fa con un bambino impaurito dagli eventi che deve di
volta in volta affrontare nel corso della sua vita, dandogli forza,
motivandolo, coccolandolo, tentando di sconfiggere i demoni al posto suo.
Questa lettura dei fatti entra in scacco però, sul finale della storia, la sede
dell’intervento più ampio di Kurzel sul testo Shakesperiano, come si è visto.
Lady Macbeth è morta, il protagonista non sente più su di sé quella pressione
che lo obbligava a sentirsi re anche quando voleva tornare sui suoi passi (pensateci,
è sempre stata sua moglie a riportarlo in carreggiata ogni volta che il rimorso
si faceva sentire) e dunque può compiere la sua scelta, può decidere di testa
sua per la prima volta dopo mesi in cui si è avvicinato pericolosamente alla
soglia di spersonalizzazione, può abbassare le armi e lasciarsi uccidere da
MacDuff. Allargando il discorso, è un po’ come se Macbeth, in questo momento,
fosse giunto ad una sorta di nuova maturazione. E’ un uomo nuovo, quello che
ora si inginocchia al suo nemico, un uomo liberato dall’autorità famigliare,
materna in questo caso (esattamente come quel giovane che, giunto alla maggiore
età, in quelle comunità tribali che sono il nucleo tematico anche del Macbeth
di Kurzel, abbandona la casa in cui è nato divenendo artefice del suo destino)
e tuttavia liberato anche dall’autorità del “dovere” (Macbeth inizialmente
sente di dover diventare re perché è necessario che lui sieda sul trono se suo
figlio non ha potuto farlo), divenendo in questo modo pienamente artefice del
suo destino e compiendo in questo senso quella morte rituale per mano del suo
nemico che è sia un atto purificatorio con cui il protagonista quantomeno prova
a redimersi da tutto il male compiuto, sia un atto squisitamente libero, privo
di sovrastrutture imposte da altri ed in questo senso autentico.
Giunti a questo punto,
possiamo permetterci perfino di espandere leggermente il discorso anche solo
perché il finale rimescola le carte in tavola, e di parecchio. Potremmo dire
che il Macbeth di Justin Kurzel
matura egli stesso in quanto film ed arriva a mutare la propria pelle durante
il suo sviluppo. Parte con l’essere dramma famigliare e termina la sua corsa
assumendo i tratti di un oscuro romanzo di formazione, il cui germe iniziale
risiede nella morte di un figlio (e dopotutto si sa che la maturità si può
raggiungere anche da adulti, dopo che un evento tragico ci costringe a fare i
conti con la nostra vita) ed il cui finale si riassume in quella sorta di
inquietante conquista della ritrovata libertà da parte del protagonista dopo la
morte. Quasi come un apparizione spettrale, poi, ecco Fleance, il figlio di
Banquo, una delle vittime di Macbeth, raggiungere il campo di battaglia,
prendere la spada da uno dei cadaveri ed iniziare a correre a perdifiato con
l’arma in mano, un po’ come se Kurzel volesse dire che Macbeth è giunto alla
fine del suo percorso, ma qualcun altro ha appena cominciato il viaggio.
Nessun commento:
Posta un commento