Cos’hanno in comune un
nano che parla al contrario in una misteriosa stanza rossa, e un eccentrico avvocato
con la vocazione per la parlantina e per la truffa, che cerca invano di trovare
uno sbocco luminoso e onesto per la sua professione? Prima risposta: sono
entrambi personaggi. Personaggi di film e serie tv americane di successo,
rispettivamente Twin Peaks e Better Call Saul. Risposta esatta, ma insufficiente.
Questi personaggi, nelle situazioni da cui li abbiamo estrapolati, sono protagonisti,
prigionieri, e proprio per questo altissimi esempi, di uno dei più singolari prodotti
dell’arte di raccontare: il prequel.
Prequel, ovvero: ciò
che è accaduto prima. Un’opera narrativa i cui fatti costituiscono la premessa,
l’antefatto di quanto già esposto in una precedente opera. Ma allora, ecco che
da questa semplice definizione è facile comprendere come un prequel non sia
unicamente ciò che è accaduto, ma anche (a volte, soprattutto) ciò che deve accadere. Perché il punto di arrivo
dovrà essere comunque, in un modo o nell’altro, il prototipo, il primo
capitolo, l’inizio: una meta ideale a cui la trama del prequel rimanda
implicitamente o si riaggancia direttamente. L’arte del prequel, dunque, se
padroneggiata con la dovuta attenzione e raffinatezza, è l’arte di raccontare
una storia di cui sia già noto l’esito principale, o comunque un esito del
medesimo universo narrativo. Una storia nuova, ma in qualche modo già
marchiata, predestinata, dove il mondo e i personaggi descritti possono
divergere anche molto rispetto al capitolo originario, ma qualcosa di loro, di legato
a loro, è stato già scritto, e nessuno potrà prescindere da ciò.
Non è un caso, dunque,
che alcuni degli esempi più felici di prequel della recente cinematografia e
serialità televisiva americana, valorizzino e talora portino alle estreme
conseguenze questo dramma strutturale dell’antefatto, di ogni antefatto: quello
di avere il proprio futuro già scritto. La cascata in cui si getterà il torrente
degli eventi è all’orizzonte; potremo ripercorrere il corso del fiume partendo
da uno degli affluenti o dal letto principale; potremo avventurarci rapidamente
e percorrerlo tutto, oppure procedere con lentezza sulla nostra imbarcazione, e
interrompere la traversata a distanza di sicurezza: ma il corso dell’acqua
rimarrà quello, inesorabilmente. Il sentimento di attesa, che tiene vivo
l’interesse di uno spettatore per ciò che viene narrato, in molti prequel non
riguarda tanto ciò che accadrà, ma come ciò che è stato sia potuto accadere. E
poiché molti prototipi di un’epopea narrativa partono da situazioni negative,
che il prosieguo della trama potrà risolvere felicemente o meno, il destino già
scritto dei protagonisti di tanti prequel tende a colorarsi di una sfumatura
tragica. Agli eroi o antieroi dei prototipi, dei sequel e degli spin-off, è
sovente concessa almeno una possibilità di riscatto, di esito positivo. Ai
personaggi dei prequel, molto spesso, no.
David Lynch tutto
questo lo aveva sicuramente chiaro, forse troppo, o forse troppo presto, quando
ha realizzato Fire Walk with Me (1992),
il film-prequel del suo celeberrimo serial tv Twin Peaks. Un antefatto cinematografico che costituisce tuttora
uno dei massimi esempi, tra i prodotti dell’industria culturale americana, di
valorizzazione della problematicità tragica del prequel. Un film che ha
destabilizzato e deluso, al momento della sua uscita, prima di tutto gli
spettatori della serie, che si aspettavano e pretendevano un sequel degli
episodi, e legittimamente, considerata la brusca interruzione tra la seconda stagione
e una terza concepita ma mai realizzata. Lynch ha invece spiazzato (e
sconcertato, e fatto ritrarre) pubblico e critica con una provocazione di cui
solo più avanti si sono colti il fascino e la ricchezza: prendere una storia
brutalmente interrotta per ragioni extra-diegetiche, e raccontarne l’antefatto,
imprigionando non solo i personaggi, ma anche gli spettatori nella trappola di
una vicenda tanto luttuosa quanto incompiuta. La serie originale ruotava
attorno alle indagini sull’omicidio di Laura Palmer, diciottenne liceale nella
(solo apparentemente) tranquilla cittadina di Twin Peaks. La risoluzione del
mistero avviene peraltro a metà della seconda stagione, dunque il film del ’92,
incentrato in buona parte sugli ultimi giorni di vita della ragazza, racconta
di un delitto, di una vittima e di un colpevole già noti, almeno per chi aveva
seguito la serie.
Ma, neanche a dirlo,
non è così semplice: Fire Walk with Me
è un’opera tutt’altro che lineare, dove il filo principale della narrazione
subisce le interferenze e le interruzioni di altri luoghi e piani temporali. In
particolare, abbiamo delle frequenti incursioni dalla e verso la Red Room, lo
spazio misterioso, esterno ma in contatto con la città di Twin Peaks, e abitato
da un nano vestito di rosso. Sia questo personaggio che la sua Red Room sono
stati parte del mistero per tutta la durata della serie, conclusasi forzatamente
con l’imprigionamento del protagonista, il detective Dale Cooper, nella sala
ambigua e spettrale del nano. Una delle idee più spiazzanti di Fire Walk with Me è proprio quella di
turbare lo svolgimento del prequel con delle sequenze ambientate nella Red Room,
dove il tempo lineare non esiste, e dunque eventi presenti, passati e futuri
dell’universo narrativo di Twin Peaks coesistono. Ecco allora emergere, in una
di queste sequenze, l’agente Cooper perduto nella stanza, proprio come
l’avevamo lasciato nell’ultima puntata; nel film il detective tenta, dalla
prigione del finale incompiuto della serie, di mettersi in contatto con la
Laura Palmer del prequel: la vittima sacrificale necessaria affinché l’intero
edificio narrativo (tragico tanto per i protagonisti quanto, in virtù della sua
incompiutezza, per il pubblico) possa esistere. Ma esso deve esistere, sembra suggerirci Lynch; e infatti né le interferenze
da altre dimensioni e piani temporali, né le lacrime di Laura, inquadrata in
uno straziante momento di consapevolezza del proprio futuro sulle note di Whispers in a World of Blue, possono
fermare l’implacabile, pre-scritto meccanismo narrativo: il delitto avviene,
nessuno, né i personaggi né il loro stesso autore, può fermarlo.
Risultano allora più
chiari gli elementi simbolici connessi al nano in questo film: a differenza che
nella serie, dove questi si esprimeva con una voce deformata ma in termini
comprensibili, qui egli pronuncia ogni parola al contrario, dall’ultimo suono
al primo; e l’oggetto a cui è misteriosamente legato, e che finirà con l’essere
offerto a Laura appena prima dell’omicidio, è un anello. Due indizi, le parole
dalla fine all’inizio e la forma circolare dell’anello, che ci rimandano alla
natura stessa del prequel, quella di una gabbia in cui sono prigionieri autori,
personaggi e persino pubblico: perché qualunque cosa si racconti, in quanto
prequel, dovrà ricondurre circolarmente a quell’inizio, al primo atto di fede
tra creatore, creature e fruitori, che ha dato il via a tutto, e che li
intrappola tutti, eternamente.
L’amara gabbia del
prequel è la stessa in cui si muove l’avvocato Saul Goodman, protagonista di Better Call Saul, antefatto di una delle
serie tv americane più fortunate e apprezzate dell’ultimo decennio (e non
solo), Breaking Bad. Il prequel in
questo caso trasporta indietro due dei comprimari e attori più significativi
del prototipo, l’avvocato Saul (interpretato da Bob Odenkirk) e l’ex poliziotto
Mike (Jonathan Banks), per farne i protagonisti e narrarne le rispettive
metamorfosi: alla fine, qualunque piega prendano gli eventi intermedi,
qualunque fine facciano i tanti nuovi personaggi introdotti nel prequel,
dovremo necessariamente ritrovarci con un Saul e con un Mike identici, o perlomeno
molto più simili, alle loro versioni presentate all’inizio di Breaking Bad. La scelta di puntare sul
prequel per ampliare e approfondire l’universo narrativo del primo capitolo è
particolarmente interessante, se pensiamo che la stessa Breaking Bad giocava ampiamente, a livello delle singole puntate,
sulla paradossale suspense del “già scritto”: sono molti gli episodi della
prima serie in cui la sequenza di apertura ci mostra un evento particolarmente
forte, destabilizzante, inatteso, per poi tornare subito indietro e narrarci
per analessi, nella restante parte dell’episodio, come si è arrivati a quella
svolta. Better Call Saul compie per
certi versi la stessa operazione, potenziata, estesa e tradotta sul piano di
due intere serie tv, autonome ma interconnesse. Anche questa volta l’acida
fatalità del prequel agisce sugli spettatori consapevoli della sorte che
attende i due personaggi principali; di questi ultimi continuiamo ad assistere,
nella seconda stagione di episodi ora in programmazione, agli ingegnosi quanto futili
tentativi di sottrarsi alla metamorfosi che li attende.
È eroico quanto
velleitario il personaggio di Mike quando, nel quarto episodio, esita e prende
un’altra, più difficile via di fronte alla prospettiva di uccidere un uomo in
cambio di soldi. Già la prima stagione di Better
Call Saul ci ha mostrato il suo addio alla polizia, all’insegna di
corruzione, vendetta e sangue, nonché i primi passi da sicario come guardia del
corpo per piccoli e grotteschi trafficanti di droga. Eppure, una parte di lui
si mantiene restia a compiere la trasformazione inevitabile: per ora Mike
sceglie di non uccidere, e ci riesce, ma sappiamo che il gioco non durerà,
perché la corrente già scritta è quella che lo porterà a diventare l’efficiente
killer-factotum del narcotraffico che abbiamo incontrato in Breaking Bad.
Analogo discorso
possiamo fare per colui che dà il nome alla serie, il futuro Saul Goodman. Futuro,
perché l’avvocato del prequel mantiene ancora il proprio vero nome, Jimmy
McGill, destinato a cambiare nello pseudonimo con cui abbiamo conosciuto lo
stesso personaggio in Breaking Bad:
il discorso in questo caso è doppiamente beffardo, perché ribadito a livello
extra-diegetico fin dal titolo della serie, che richiama, puntata dopo puntata,
a quel Saul cui non si potrà sfuggire; per questo i tentativi sfortunati,
contraddittori, frustrati di Jimmy di costruirsi una carriera da rispettabile
avvocato sono destinati a fallire, e il punto d’arrivo obbligato è la
maturazione nel cinico avvocato della malavita Saul Goodman. Così come i toni
da commedia caustica, tesa e cattivissima di questo prequel sono naturalmente
orientati a condurci verso quelli di una serie dagli umori non meno corrosivi,
ma al contempo ben più cruda e radicale, come Breaking Bad. Anche qui, dunque, più di vent’anni dopo Fire Walk with Me, un anello che non si
può aggirare, un cerchio che deve chiudersi, una condanna che aleggia nel
paradosso di una storia che è nuova senza potersi dire “libera”.
Il progenitore del
prequel, in quest’ottica, è la tragedia classica: il pubblico di allora
conosceva già a grandi linee i miti alla base del dramma, i destini di Edipo o
di Prometeo o di Aiace erano già segnati quanto radicati nell’immaginario
collettivo. Né i personaggi, dei o mortali che fossero, né il poeta tragico,
avevano voce in capitolo su ciò che il Fato aveva già stabilito, sulla
direzione che il soggetto mitico imponeva e imprimeva ai fatti. Allo stesso
modo, la direzione degli eventi narrati da un prequel è sempre in una certa
misura preordinata da un mito di partenza, quello del film o della serie che ha
dato la luce all’universo narrativo. Tuttavia, oggi come allora, conoscere già
il mito, sapere (da spettatori) che non c’è modo di sottrarsi all’influenza di
esso, non significa appiattimento della partecipazione emotiva, al contrario: è
proprio questa consapevolezza ad accrescere il pathos, a caricare azioni,
battute, svolte drammatiche, di una tensione e di un senso ulteriori. E se la
macchina funziona, ci ritroveremo (e ci ritroviamo), con tutto il nostro
disincanto di spettatori postmoderni, a desiderare paradossalmente che il fiume
non porti alla cascata: che gli eventi, almeno per alcuni sviluppi o
personaggi, non prendano la piega spiacevole che già sappiamo. La speranza
vana, quasi infantile, che la storia non segua il suo corso: come di fronte
alle migliori tragedie.
Emanuele Bucci
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