La prima volta che Matt
Murdock, avvocato cieco ma dotato di abilità fuori dal comune, decise di
indossare un costume da supereroe per combattere la criminalità nel quartiere
newyorchese di Hell’s Kitchen, era il 1964.
Il mondo era quello cartaceo, colorato e pop dei primi fumetti Marvel scritti da Stan Lee, dove l’eroismo classico e ingenuo si mescolava ai limiti molto umani dei protagonisti, all’autoironia delle didascalie, alle trame che alternavano battaglie a intrecci da soap-opera. Quarant’anni dopo, nel 2003, un nuovo Matt Murdock, più cupo, violento e tormentato, aggiornato cioè alle reinterpretazioni del personaggio a fumetti dagli anni ’80 in poi, provò ad emergere e a farsi strada in un altro mondo; un mondo con regole affatto diverse da quello delle vignette, e che tuttavia con l’immaginario di queste ultime ha sempre avuto un rapporto privilegiato, visto che si tratta comunque di raccontare per immagini in sequenza: ci riferiamo al mondo del cinema, che ha visto la prima incarnazione del supereroe Daredevil nell’omonimo film sceneggiato e diretto da Mark Steven Johnson. Una pellicola che ambiva certamente ad essere acclamata tra i campioni della primavera dei cinecomics (gli adattamenti cinematografici dai fumetti, in particolare di supereroi), al pari di opere che in quegli anni avevano rilanciato e ridefinito il genere, come il primo X-Men di Bryan Singer o il primo Spider-Man di Sam Raimi. Ma qualcosa, per Daredevil, andò storto, e il film di Johnson non riscosse consensi all’altezza delle coeve produzioni. Così, mentre i cinecomics crescevano e si espandevano, mentre anche i Batman e i Superman risorgevano sullo schermo e uno dopo l’altro si assemblavano gli Avengers dei Marvel Studios, il supereroe cieco vestito da diavolo è rimasto in attesa dal buco nero di un mezzo fallimento. Fino a un anno fa.
Il mondo era quello cartaceo, colorato e pop dei primi fumetti Marvel scritti da Stan Lee, dove l’eroismo classico e ingenuo si mescolava ai limiti molto umani dei protagonisti, all’autoironia delle didascalie, alle trame che alternavano battaglie a intrecci da soap-opera. Quarant’anni dopo, nel 2003, un nuovo Matt Murdock, più cupo, violento e tormentato, aggiornato cioè alle reinterpretazioni del personaggio a fumetti dagli anni ’80 in poi, provò ad emergere e a farsi strada in un altro mondo; un mondo con regole affatto diverse da quello delle vignette, e che tuttavia con l’immaginario di queste ultime ha sempre avuto un rapporto privilegiato, visto che si tratta comunque di raccontare per immagini in sequenza: ci riferiamo al mondo del cinema, che ha visto la prima incarnazione del supereroe Daredevil nell’omonimo film sceneggiato e diretto da Mark Steven Johnson. Una pellicola che ambiva certamente ad essere acclamata tra i campioni della primavera dei cinecomics (gli adattamenti cinematografici dai fumetti, in particolare di supereroi), al pari di opere che in quegli anni avevano rilanciato e ridefinito il genere, come il primo X-Men di Bryan Singer o il primo Spider-Man di Sam Raimi. Ma qualcosa, per Daredevil, andò storto, e il film di Johnson non riscosse consensi all’altezza delle coeve produzioni. Così, mentre i cinecomics crescevano e si espandevano, mentre anche i Batman e i Superman risorgevano sullo schermo e uno dopo l’altro si assemblavano gli Avengers dei Marvel Studios, il supereroe cieco vestito da diavolo è rimasto in attesa dal buco nero di un mezzo fallimento. Fino a un anno fa.
Oggi Matt Murdock è
tornato a difendere Hell’s Kitchen nei panni di Daredevil, e lo ha fatto di
nuovo in un contesto produttivo e narrativo attraversato da un’inedita primavera:
la serialità televisiva. Ma stavolta il prodotto ha riscosso un fenomenale, e a
nostro avviso meritatissimo, successo: Marvel’s
Daredevil, la produzione tv targata Netflix e Marvel Studios, rappresenta
una delle più riuscite trasposizioni filmiche di un’opera a fumetti, grazie a
un raro equilibrio tra valorizzazione del materiale di partenza e sua
rielaborazione alla luce di alcune specificità del diverso format. Esploriamo
allora la seconda stagione dello show, alla ricerca di temi e cifre
fondamentali che dai fumetti sono stati trasposti felicemente all’interno della
serie tv.
Innanzitutto, Marvel’s Daredevil fa propria quella che
è sempre stata ed è tuttora una delle intuizioni vincenti del fumetto (prima) e
del cinema (poi) con protagonisti supereroi: la contaminazione tra i generi. In
questo senso si può dire che il supereroe sia sempre stato, più che un genere
in sé, un tema: come tale, questo può essere trasportato in generi assolutamente
disparati. Anzi, nelle varianti più riuscite i supereroi agiscono come elemento
destabilizzante della tipologia di racconto in cui si trovano gettati: quasi
fossero il corpo estraneo di un mito originario (l’eroe con proprietà, in un
modo o nell’altro, eccezionali) che agisce e si nutre dei codici di un genere
di successo della modernità. In Batman, ad esempio, i codici sono quelli del
poliziesco; negli X-Men quelli della fantascienza; in Thor quelli del fantasy
epico. In Daredevil, almeno così come è stato impostato negli ultimi decenni,
il genere in cui siamo catapultati è il noir. Attenzione: non parliamo di un
racconto di supereroi, gente con superpoteri e costumi colorati, che in
determinati momenti si tinge di noir; al contrario, il Daredevil dei fumetti di
Miller, così come quello della serie tv, è in se stesso un noir, che per uno
strano scherzo del destino (e degli autori) ha come protagonista un uomo in
tuta rossa i cui sensi sono stati potenziati dalle sostanze chimiche che gli
hanno sottratto la vista; e con la sua eccezionalità di supereroe, questo
personaggio (e così noi) rischia costantemente di sprofondare nelle ombre di un
genere narrativo molto più crudele; di affogare nella cupezza notturna delle
atmosfere, nel duro realismo con cui sono mostrati crimini che affliggono
davvero le città americane, dallo spaccio di droga alla violenza domestica
passando per traffici di esseri umani, corruzione e organizzazioni mafiose in
guerra. Questa è la giungla urbana, malata e soffocante, in cui l’eroe cerca di
riscrivere o perlomeno correggere il copione tragico che prevede donne e uomini
comuni coinvolti come vittime innocenti in giochi illeciti più grandi di loro.
La seconda stagione di Marvel’s Daredevil porta il cortocircuito tra il supereroe e i codici del noir alle estreme conseguenze attraverso una pluralità di elementi: in primo luogo, l’introduzione nell’universo seriale dell’archetipo femminile chiave di ogni noir che si rispetti, la femme fatale. Anche qui le opere di Frank Miller sono una miniera di diamanti già estratti e serviti, col personaggio di Elektra Natchios finalmente traghettato dal fumetto alla serie tv, e affidato alla performance di Elodie Yung. Della femme fatale, Elektra (quella dei fumetti e quella della serie) ha tutte le caratteristiche fondamentali: una destabilizzante (per lo spettatore ma soprattutto per il protagonista maschile) ambiguità morale, sempre in bilico tra il desiderio di trascinare con sé il partner nell’abisso dei rispettivi lati oscuri, e una tensione opposta verso la possibile redenzione; un cammino che sembra preordinato verso sviluppi luttuosi, prima di tutto per se stessa, tanto da farla oscillare continuamente tra il ruolo di carnefice e quello di vittima; una sensualità magnetica e inquietante, legata alla violenza e al pericolo, perfettamente contrapposta negli episodi di questa stagione alla tenerezza dello sfortunato idillio tra Matt e la collaboratrice Karen Page.
Ma
soprattutto, la cifra noir di questa serie è data dalla rappresentazione della
città, fotografata in un intreccio di opprimenti luci artificiali che si
confondono tra loro nelle prevalenti inquadrature notturne. Sono frequenti,
quanto e più che nella precedente stagione, i dialoghi tra personaggi che
descrivono la loro appartenenza a questa New York sporca e minacciosa, a cui si
sentono inesorabilmente e perversamente legati. Le strade e gli edifici di
Hell’s Kitchen sono, in più di un senso, i veri protagonisti, negli episodi
come nei fumetti; si veda in quest’ultimo caso una graphic novel come The Man without Fear (1993), dove il
Miller sceneggiatore riscrive le origini del personaggio: nella prima vignetta,
estesa all’intera tavola, un giovanissimo Matt ci è presentato letteralmente
immerso nella giungla degli alti caseggiati popolari del suo quartiere; mentre
la didascalia ci avverte che «il ronzio della città chiama questo ragazzino,
Matt Murdock. Lo chiama promettendogli qualcosa che ancora non può capire».
C’è un effetto
fondamentale e inevitabile del trasportare un supereroe all’interno di un racconto
noir, effetto che si produce tanto nei fumetti di Miller quanto in questi
episodi, ed è la vera cifra essenziale della nuova stagione: l’etica del
supereroe, il suo agire per fare “del bene”, viene costantemente,
sistematicamente e radicalmente messa in crisi. Nella storia a fumetti Roulette (Daredevil n. 191) vediamo un bambino che, ispirato dalle gesta del
supereroe, decide di farsi giustizia da sé con l’aiuto di una pistola; cosa che
porta il protagonista a interrogarsi su quanto il suo agire da vigilante che
picchia criminali possa essere solo l’altra faccia del sistema di violenza
contro cui combatte. Dilemmi simili percorrono l’intera seconda stagione di Daredevil, soprattutto attraverso l’introduzione
del personaggio di Frank Castle, che rispetto al protagonista ha superato il
confine etico che separa l’eroe dall’antieroe, il confine che vieta di
ricorrere all’omicidio come soluzione per opporsi ai criminali. Castle,
celeberrimo personaggio dei fumetti Marvel con il nome di Punisher, è l’estremizzazione di un paradosso insito in ogni
supereroe del cinema e dei fumetti, quello di voler fermare la violenza
ricorrendo sistematicamente alla violenza. Lo scontro tra Castle/Punisher e
Murdock/Daredevil è ideologico, oltre che fisico: il primo, a differenza del
secondo, ha rinunciato al compromesso con la legalità e col rispetto della vita
umana, non consegna i criminali alla giustizia costituita ma applica un proprio
codice mutuato dall’esperienza di cecchino (in Vietnam nei fumetti, in
Afghanistan e Iraq nella serie); abbatte i nemici come mosche a furia di
proiettili, agisce come giudice, giuria e boia, in contrapposizione a un eroe
che non a caso, nella vita del proprio alter ego, è avvocato. Ma il dubbio,
suggerito di episodio in episodio, è che l’eroe sia più che altro in cerca di
un alibi per lavarsi la coscienza, quando invece il suo agire al di sopra della
legge contribuisce a mettere in crisi proprio quel sistema, quell’ordine che
egli crede di preservare.
Non c’è solo il noir,
del resto, ad animare il fumetto e la sua trasposizione: gli episodi centrali,
con il processo a Frank Castle, compiono una vera e propria incursione nel
legal thriller, valorizzando un'altra peculiarità della serie disegnata, dove
le battaglie dell’eroe in costume e quelle dell’avvocato nelle aule di
tribunale sono alternate e interconnesse. C’è, inoltre, in dose massiccia
rispetto alla stagione precedente, una componente di per sé lontana dal
realismo degli scenari da noir metropolitano: una sottotrama, quella della
guerra con la setta di assassini della Mano, che ci porta addirittura al
confine col soprannaturale, in una commistione apparentemente stonata con le atmosfere e la poetica che abbiamo detto finora; ma in realtà si tratta proprio
dell’altro volto, complementare al primo, del Daredevil di Miller, nelle cui
vignette uno spazio generoso (e fondamentale per lo sviluppo del personaggio di
Elektra) è riservato a eserciti di ninja, antiche leggende e guerrieri vicini
all’immortalità. Contaminazioni che potranno piacere o non piacere, ma che contribuiscono
a fare l’originalità della saga a fumetti e, da ora, di quella televisiva.
Ma, come abbiamo
accennato, la forza di Marvel’s Daredevil
sta proprio nel suo non essere, malgrado tutto, una trasposizione
pedissequa, religiosamente fedele, delle vignette di partenza. Ed è un bene che
sia così: tra i principali problemi di una produzione a fumetti come quella
targata Marvel Comics, c’è la disomogeneità narrativa e stilistica. In cinquant’anni
di storia, un personaggio come Daredevil è stato reinterpretato e aggiornato ad
ogni singola svolta (editoriale ed espressiva) che ha interessato il medium
fumettistico nell’ultimo mezzo secolo. Lo stesso Frank Miller, che si è
occupato a più riprese del personaggio, dai primi anni Ottanta a tutti gli anni
Novanta, ha impresso alla serie la sua maturazione tematica e stilistica per
gradi; e anche prendendo solo l’ultimo trentennio di storie, c’è un salto
notevole tra la prosa ancora piuttosto didascalica del primo Miller e i dialoghi
incalzanti e realistici di un Brian Bendis (il più noto sceneggiatore della
serie negli anni 2000); così come totalmente diverse sono state le elaborazioni
grafiche del personaggio, dai colori accesi e dal dinamismo del Miller
disegnatore all’immobilità fotografica e immersa nel nero di artisti come Alex
Maleev. Non a caso, per far fronte a questo aspetto, i cinecomics più riusciti
hanno puntato e puntano su autonomia, compattezza e riconoscibilità stilistica:
dal Batman di Burton a quello di Nolan; e questa serie su Daredevil non fa
eccezione.
Infine, la scelta di
puntare sulla serialità televisiva, anziché sul cinema; una soluzione vincente,
e ancora troppo poco sfruttata nella galassia dei cinecomics: ogni saga
cinematografica sugli eroi dei fumetti ha mostrato in modo più o meno evidente l’affanno
di dover riassumere i tratti salienti di un universo seriale sviluppatosi
attraverso decenni (quello dei fumetti) nel brevissimo arco di tre o quattro
film di poche ore ciascuno. Una sfida ardua e non più necessaria, ora che la
serialità televisiva attira investimenti finanziari e creativi, oltre che un
interesse del pubblico, senza precedenti. La serie tv merita davvero di
diventare il format principe per descrivere l’evoluzione dei personaggi a
fumetti, che non a caso si sono sviluppati prevalentemente attraverso serie di
episodi che costruiscono archi narrativi lunghi e complessi. In questo senso, Marvel’s Daredevil non è solo un ottimo
risultato nel presente, ma indica ai fratelli cinecomics una fondamentale via
per il futuro.
Emanuele
Bucci
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