In un modo del tutto particolare, The Other Side Of The Wind finisce per essere uno straordinario rappresentante del tempo in cui (originariamente) ha finito per inserirsi e del contesto socioculturale con cui è entrato in contatto.
The Other Side Of The Wind passa alla storia per essere uno dei progetti più travagliati della filmografia di Orson Welles (uno che di problemi durante la lavorazione dei propri film se ne intende). Welles scrive una prima bozza dello script all’inizio degli anni ’60, la termina alla fine del decennio e, successivamente, passa i successivi dieci anni a cercare finanziamenti che gli permettano di portare quella stessa sceneggiatura in scena. Una ricerca che, tra l’altro, non cessa neanche mentre la pellicola è in lavorazione, una lavorazione che per questo è costretta a districarsi tra contrattempi, ristrettezze, finanziatori che scappano con i soldi.
Ora che Netflix si è lanciata
nell’impresa di patrocinare il montaggio completo e la distribuzione di quello
che fino a pochi mesi fa era uno dei tanti progetti inediti di Welles
l’attenzione è ancora, di nuovo, tutta spostata sul versante finanziario,
economico della pellicola.
The Other Side Of The Wind continua ad essere, per la sensibilità
comune e almeno ad un occhio superficiale, il film che Welles, a causa di una
serie di vicissitudini produttive, non è mai riuscito a completare nella sua
interezza. Sembra essere lì la sua unicità, nel suo essere, nel 2018, film
(finalmente) finito dopo essere stato per anni oggetto di desiderio e simbolo
della sconfitta dell’arte a vantaggio del potere economico.
Il punto della questione,
tuttavia, è che se ci fermiamo solo a questo siamo ben lontani dalla verità, il
punto è che proprio il battage pubblicitario e promozionale alle spalle del
film di Welles rischia di accecare la vista e di non permettere di comprendere,
di confrontarsi pienamente con l’anima profonda di un progetto del genere,
forse, come vedremo, il più maturo, personale, del regista americano,
probabilmente quello in cui la costante ricerca di assimilazione dei suoi tratti identitari e quelli dei protagonisti via via portati in scena (spesso persino interpretati), che in fondo ha caratterizzato tutta la
carriera di Welles, raggiunge il suo grado massimo e più compiuto. Ma ne
parleremo, prima, però, è necessaria, forse, un minimo di contestualizzazione
storico-culturale.
The Other Side Of The Wind muove i suoi primi passi sulle ceneri
del ’68 e viene sviluppato nel corso di tutti gli anni ’70. Il film di Welles
viene nutrito dunque, anche inconsapevolmente, complici le frequenti pause
forzate a cui è sottoposto e le conseguenti riscritture durante le quali la
sceneggiatura viene rimaneggiata, asciugata, centrata in maniera migliore,
arricchita di spunti, da quel clima di rivoluzione che arriva a coinvolgere,
oltreché la società o la cultura anche i veri e propri paradigmi attorno a cui
l’arte si strutturata fino a quel momento. Negli anni in cui The Other Side Of The Wind viene alla
luce acquista potenza l’esistenzialismo di Sartre, Truffaut e Godard danno vita
alla Nouvelle Vague, in Inghilterra prende corpo il Free Cinema e in Germania
muove i suoi primi passi il Nuovo Cinema Tedesco, il tutto mentre il cinema
italiano riesce a liberarsi, almeno temporaneamente, del pesante fardello
costituito dal fantasma del Neorealismo, per lanciarsi nella libera
sperimentazione che costituisce la spina dorsale di quel periodo che gli
studiosi chiamano Cinema Moderno. È chiaro che Welles si sta confrontando con
un contesto caratterizzato da un rapido, inesorabilmente mutamento, un mutamento,
un’evoluzione, che coinvolge proprio il suo progetto, mai come in questo
momento materia viva, soggetta agli input più svariati che ne modellano la
natura profonda.
La storia creativa alle spalle di
The Other Side Of The Wind potrebbe
essere facilmente interpretata come il più classico dei tentativi di un
regista, di un intellettuale, di un creativo della vecchia guardia, di dire la
sua, meglio, di mostrare al suo pubblico che ha effettivamente ancora qualcosa
da dire in una dimensione che sembra voler riconsiderare da zero lo statuto del
regista, la sua autorità, il suo potere creativo e demiurgico, in un contesto,
in sostanza, che sembra non volerlo più. Orson Welles si sta comportando, forse, come si sono comportati i Rolling Stones di Some Girls, un album rabbioso, grintoso, con cui la band, agli
albori del punk, rispondeva alle accuse di chi li vedeva come una band finita,
dei dinosauri venduti che dovevano fare spazio alla rivoluzione di Johnny Rotten e soci?
In realtà no. Anzi, la
situazione, a ben guardare, è più complessa di così e il motivo è presto detto.
Orson Welles, in effetti, nel corso della sua carriera si è rapportato al cambiamento, alle rivoluzioni, in modo del tutto originale. Avanguardista fin dai suoi esordi rispetto ai suoi contemporanei, Welles, pur lavorando, modificando, gli elementi formali e di scrittura del cosiddetto Cinema Classico non ne ha mai negato la sua struttura profonda, che, piuttosto, ha costantemente utilizzato come elemento fondamentale delle sue pellicole, non eliminandola mai ma, piuttosto, cercando di infiltrarla dall’interno per creare qualcosa che fosse personale o, detto ancora meglio, autoriale. Un rivoluzionario a metà? No, un autore aperto ad un’evoluzione che sia, prima che totale, coerente e cosciente del contesto che la accoglie. E allora ecco che, un artista del genere, piuttosto che essere refrattario al cambiamento, è più probabile che non riesca, più precisamente, a tenere il passo dei tempi che corrono.
In questo senso, The Other Side Of The Wind si pone come
un progetto che, nel suo farsi, nel suo entrare in contatto con lo spettatore,
vuole essere prima di qualsiasi altra cosa una riflessione su quella scena
artistica che, tra gli anni ’60 e ’70, stava subendo un mutamento radicale
proprio negli stessi istanti in cui il film di Welles nasceva, una riflessione
che finisce inevitabilmente per coinvolgere il creatore stesso, oltre alla
creatura. E allora ecco che The Other
Side Of The Wind diventa il luogo artistico in cui Welles finisce per compiere
la sua riflessione più personale attorno allo stato di salute della Settima
Arte, una riflessione che smette di essere tale nel momento in cui l’opera,
come si vedrà, inizia ad interrogare letteralmente il medium cinema e Welles
trova il coraggio di mettere in discussione il suo stesso ruolo di mente
creativa alle spalle dell’opera.
Un buon punto di partenza, in
questo senso, per confrontarsi pienamente con tutte le implicazioni di un
progetto del genere ce la offre il tono generale attraverso cui si dipanano di
fronte allo spettatore le argomentazioni della pellicola.
Molti hanno detto che The Other Side Of The Wind altro non è
che una satira rivolta alla nuova scena artsy
che in quegli anni si sta sviluppando ma, forse, una risposta del genere
risulta troppo semplicistica e non tiene conto della gran parte di variabili
messe in gioco dal progetto di Welles. In primo luogo perché, a ben guardare, la
satira di Welles risulta essere straordinariamente equilibrata, più interessata
a porre tra parentesi gli atteggiamenti estremisti da parte di entrambi gli
schieramenti (includendo dunque, insieme ai nuovi, giovani intellettuali, anche
alcune derive legate alle frange più resistenti della tradizione, dell’accademia),
ma soprattutto perché se davvero The
Other Side Of The Wind si sviluppa nei territori della satira indubbiamente
si tratta di una satira in cui si ride molto meno del previsto e in cui
l’elemento comico, meglio, paradossale, non fa altro che lasciare allo
spettatore un’imprevista sensazione di amaro in bocca e di malinconia. Si
tratta di sentimenti a prima vista di difficile comprensione ma che sicuramente
ben si adattano a quell’idea di irrisolto, a quella frustrazione che sembrano
essere alla base dei gesti e delle idee di Jake Hannaford man mano che il film
si sviluppa.
Hannaford (e Welles con lui) si
confronta, fondamentale notarlo, non con uno spazio, con una dimensione
distrutta, ma con uno spazio in costante e imprevista trasformazione
nell’esatto momento in cui il regista lo osserva o ci lavora all’interno.
L’obiettivo di Welles non è quello di raccogliere i pezzi (come sarebbe sensato
aspettarsi da un regista della vecchia guardia quale egli appare ad uno sguardo
distratto) quanto piuttosto cercare di fare ordine a questo contesto caotico
mentre la terra gli scivola da sotto i piedi.
Curioso notare, proprio in
rapporto a ciò, quanto l’organizzazione delle argomentazioni di Welles in The Other Side Of The Wind rimi con una
forma del tutto particolare della struttura logica della filosofia Hegeliana.
La tesi e l’antitesi, i due opposti atteggiamenti nei confronti dei paradigmi
creativi si fronteggiano nel corso di tutto il film, mentre in parallelo, ad un
livello di lettura più profondo, scorre la sintesi tra i due atteggiamenti,
che, appunto, finisce per innervare tutta la pellicola e non viene presentata
nei suoi momenti finali, quasi che un momento così rivoluzionario per l’arte
cinematografica abbia bisogno di un sistema di logico del tutto nuovo per
essere approcciato.
Guardando tuttavia più da vicino
al meccanismo argomentativo che di fatto regge The Other Side Of The Wind possiamo osservare quanto ognuna delle
sue tre parti si sviluppi attorno ad elementi senza alcun dubbio ambigui, gli
stessi elementi che, nel momento in cui si inseriscono all’interno del disegno
completo, rendono l’opera di Welles sfaccettata e profonda.
Nel sistema di Welles, Jake
Hannaford ricopre prevedibilmente il ruolo della tesi, ma la sua immagine non
può che risultare opaca. Hannaford, esattamente come Welles, pur inserendosi
all’interno di un sistema cinematografico classico, tradizionale, non ha paura
di operare all’interno delle regole o delle convenzioni di questo sistema per
creare qualcosa di originale e in cui scorra profondamente la sua autorialità.
È questo che costituisce la sua unicità, è per questo che Hannaford è così
amato, stimato. Basta poco, però, per capire che Hannaford non è riuscito a
scrollarsi completamente di dosso quella “tradizione” che, apparentemente,
sembra contrastare. Con il tempo ne è stato assimilato almeno sul versante
ideologico, è diventato uno stimatissimo “grande vecchio” di Hollywood, il suo
desiderio di sovversione si è smussato, soprattutto, non sembra voler
rinunciare a quell’elemento demiurgico, all’identità tra regista e Dio creativo
che è una delle fondamenta di certa tradizione.
A puntellare i pellegrinaggi di
Jake all’interno della dimensione filmica ci sono infatti una serie di elementi
disseminati da Welles atti ad amplificare la natura quasi divina da cui il
regista sembra sentirsi investito. Il party di compleanno di Hannaford,
registrato dalle telecamere di appassionati, giornalisti e documentaristi e
attorno a cui si sviluppa il film è, di fatto, la cosa più simile ad una “Ultima
Cena” del regista, che si riunisce per l’ultima volta con la sua cricca, i suoi
discepoli; Hanneford poi, parla poco, nel corso del film (inizierà a farlo più
spesso solo dopo che l’alcool gli andrà alla testa, quasi fosse colto in
un’estasi di una cerimonia religiosa), la maggior parte dei contatti, dei
confronti con l’altro, il regista li sviluppa in maniera indiretta, sfruttando
le centinaia di ore di registrazioni che costituiscono il corpus di interviste
su cui si sarebbe dovuto organizzare il libro a lui dedicato dal suo discepolo
prediletto. Jake si smaterializza (ancora meglio, diventa ubiquo, al contempo
presente e assente, come si conviene ad una divinità) e acquista importanza la
sua parola, che si fa corpo e che diventa, per i giornalisti, i giovani critici
convenuti, una sorta di vangelo apocrifo di un rivoluzionario del cinema che
non è più. Hannaford, ormai è chiaro, è perfettamente a suo agio nei panni di
un Dio antico e potente, quasi lo conferma lui stesso mentre, ad esempio, educa
i discepoli con un discorso che ricorda, sul piano del concept, il Discorso
Della Montagna, oppure quando, con espressione sorniona ricorda insieme ai suoi
commensali quanto egli sia abile a lanciare nello Stardom nuovi attori e
attrici fino ad un momento prima sconosciuti e quanto, per un suo capriccio,
quelle stesse star siano state abbandonate a loro stesse dopo un singolo
battito di ciglia. Improvvisamente, tuttavia, il paradigma di Hannaford finisce
per scontrarsi con un nuovo modo di intendere il cinema, con l’avanguardia, con
il contesto artsy, con l’antitesi
stessa del suo essere e delle sue argomentazioni, sebbene, inutile dirlo, anche
in questo caso si tratta di un’antitesi squisitamente sui generis. In primo luogo perché, proprio per la sua stessa
natura di rivoluzionario, Hannaford non è contrario a queste nuove tendenze del
cinema contemporaneo, anzi, ne è affascinato, inesorabilmente attratto, in
secondo luogo perché quello che si consuma tra la distorta tradizione da cui
proviene Jake e quello che ora possiamo definire come cinema d’avanguardia non
è un vero e proprio scontro. È, piuttosto, un confronto serrato che nasce dalla
volontà di Hannaford di catturare l’anima di questo nuovo paradigma, anima che
però, sembra sfuggirgli inesorabilmente.
Il centro di questo confronto, di
questo contatto irrisolto, risiede prevedibilmente nell’approccio sbagliato del
protagonista a questo nuovo contesto operativo. Jake, in buona sostanza, vuole
giocare ad un nuovo gioco utilizzando le regole vecchie, regole, imposizioni,
atteggiamenti, a cui il film, come natura viva, sembra opporsi, esercitando su,
in qualche modo, una sorta di resistenza.
Hannigan, in una delle scene,
guida il suo attore feticcio durante una sequenza, vorrebbe modellarlo come
creta, ma, al di là del sottotesto omoerotico che permea questo duetto, ciò che
salta più all’occhio è che è chiaro che c’è qualcosa che si oppone al carisma
di Jake. I suoi ordini non vengono eseguiti, il suo attore (così simile al Mark
Frechette di Zabriskie Point)
abbandona rabbioso il set e rompe, di fatto, l’incantesimo di quello spazio
sacro.
Ancora, non sottovalutiamo quanto
il cosiddetto Paradigma Del Nuovo Cinema interessi anche e soprattutto
l’orizzonte ermeneutico, legato al film, oltre a quello meramente produttivo e
realizzativo. The Other Side Of The Wind,
ad un occhio più attento, è un oggetto sfuggente prima di ogni altra cosa
all’interno della sua dimensione interpretativa. Cos’è, davvero, The Other Side Of The Wind, quali
tematiche problematizza il film di Hannaford? Nessuno lo sa, ancora meglio, non
esistono risposte univoche. Ogni immagine stimola in chi guarda uno spunto di
riflessione differente, personale, una riflessione che sarà, quasi sempre, a
suo modo corretta. Hannaford e i suoi non sembrano capire fino in fondo questa
rivoluzione interpretativa che fa in modo che il cinema europeo tra gli anni
’60 e ’70 stacchi così in profondità i paradigmi del passato. Quando gli è
richiesto di parlare del suo film Jake è vago e la sua corte, quando si interroga
sulla natura profonda del progetto si lancia in arditi dibattiti attraverso cui
ridurre alla misura matematica, alla logica, all’unica interpretazione corretta
un flusso di immagini che non è affatto detto debba essere conchiuso in una
lettura che ne catturi il senso profondo.
Amplificando di poco i confini
del discorso, si potrebbe quasi dire che il film di Hannigan sfugge alla sua
stessa presa proprio perché, con buona probabilità, ne percepisce
l’insincerità. Lo abbiamo visto, Jake vorrebbe girare un film sovversivo,
vicino alle nuove sensibilità europee ma non comprende il cambiamento profondo
di paradigma che sottende proprio al cinema europeo contemporaneo. Tutto
diventa dunque, per lui, freddo materiale da costruzione, su cui montare o
smontare il suo film. Le riprese con la camera a mano, la fotografia
sperimentale, la musica rock, i nudi, gli elementi che dominano il film di
Hannaford non servono dunque a fare davvero la rivoluzione, a far confrontare
lo spettatore con un nuovo modo del guardare o del sentire un film, piuttosto,
costituiscono strutture attraverso cui Hannaford stesso prova a reinventarsi, a
spostare la sua fine artistica un po’ più in là, sequenze che gli sono
necessarie per creare il suo Zabriskie
Point in provetta. Jake non comprende la portata della rivoluzione a cui
vorrebbe prendere parte, la approccia con eccitazione ma al contempo con
superficialità, come una parentesi curiosa e avventurosa (e in questo è
abbastanza evidente il correlativo oggettivo che vede il nuovo approccio al
cinema di Hannaford assimilabile all’innamoramento inaspettato del regista per
il suo giovane attore). C’è troppo in gioco per permettersi di essere
superficiali, il film, di nuovo, come oggetto cosciente, punisce dunque il
protagonista sfuggendogli e lasciando che l’opera si chiuda con un nulla di
fatto.
Jake Hannaford muore in un
ambiguo incidente d’auto, il film rimane incompleto e tutto il progetto di
Welles, tutto il confronto organizzato finora tra tesi e antitesi sembra sfuggire
ad una sintesi proficua che rimarchi le premesse del dibattito e proponga una
soluzione proficua da cui partire per il futuro.
Si tratta, tuttavia, di una
sensazione solo apparente. È straordinario notare, in questo senso, come
abbiamo già accennato, quanto la sintesi (che di fatto costituisce anche la
posizione di Welles stesso all’interno del dibattito) scorra chiaramente
sottotraccia rispetto al film.
Basta poco, in realtà, per
comprendere quanto il mockumentary che fa da cornice al film cristallizzi in sé
tutte le pratiche, i comportamenti, gli atteggiamenti, attorno a cui si sta
coagulando la nuova sensibilità del cinema contemporaneo. È girato
principalmente con la camera a mano, presenta sequenze visivamente ardite, che
mischiano spesso parentesi in bianco e nero ad altre a colori, tratta
velatamente la musica jazz che sottolinea alcuni passaggi come Antonioni
trattava i Pink Floyd, è aperto, soprattutto attraverso il suo epilogo, a più
di una lettura. Input diversi si sviluppano in un discorso comune e influenze
provenienti da medium artistici differenti si coagulano in un insieme
equilibrato. Welles, per certi versi, fa anche un passo ulteriore e presenta
allo spettatore il prototipo del nuovo cineasta, colui che erediterà il nuovo
paradigma della rappresentazione. A catturare il party di compleanno di
Hannaford è infatti una troupe di giovani autori che riprende la scena
utilizzando delle telecamere portatili super 8. Gli schermi si moltiplicano,
l’orizzonte cinematografico si espande ma soprattutto la Settima Arte si
democratizza. Non esistono più Dei, ora tutti possono essere registi, bastano
passione, buona volontà ed una preparazione ampia e non gerarchizzata nelle
forme d’arte più svariate, la stessa che offrono le scuole di cinema
indipendenti americane, tra le altre, la stessa preparazione degli autori della
nascente New Hollywood.
Welles supera Hannaford dunque.
Con il suo film forse più ambizioso dimostra che un nuovo modello di cinema è
possibile, che un nuovo paradigma è teorizzabile, basta che alle sue fondamenta
ci siano la consapevolezza del mezzo e la buona volontà di creare qualcosa di
affascinante e di interessante. Un cinema nuovo ma consapevole di ciò che l’ha
preceduto e di dove vuole andare.
Forse, a margine, la cosa più
straordinaria da notare in questo senso è quanto Welles abbia incamerato e
teorizzato la rivoluzione nel suo farsi utilizzando ed espandendo proprio gli
strumenti (il mockumentary, la riflessione attorno ad un Tychoon solitario e
sconfitto) che segnarono la sua prima rivoluzione, quella alle spalle di Citizen Kane, come un serpente che
mangia sé stesso osservando il futuro.
Alessio Baronci
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