Io non esiterei un solo
istante a chiamarla “legge del contrappasso”.
La verità è che, come mi
è capitato di dire l’ultima volta in cui sono entrato qui, ci confrontiamo con
tempi particolarmente oscuri, ma oscuri, sia ben chiaro, non vuol dire affatto
“privi di via d’uscita”.
E allora, forse è proprio
qui che viene il bello, quando la via d’uscita non solo si offre a chi guarda
in tutta la sua efficacia, ma, cosa straordinariamente ironica, si ritrova
nell’ultimo posto in cui ognuno di noi si aspetterebbe di trovarla.
Il punto di partenza di
tutta la questione è la cosiddetta “crisi del cinecomic”, che da anni, a detta
della maggior parte degli spettatori, sta attanagliando il cinema
contemporaneo. Ce ne sono troppi, ogni anno ne escono di diversi, i loro
protagonisti e le varie linee di trama organizzano un contesto che, horridu
dictu! si prende straordinariamente sul serio, troppo sul serio, per essere
delle semplicissime trasposizioni su celluloide di avventure a fumetti. Cosa
ben più importante, da quando la Marvel ha avviato il suo universo condiviso e
la DC la sta imitando, le storie sono diventate affreschi troppo complessi da
seguire per lo spettatore medio e, elemento fondamentale, l’impianto visivo, la
regia in sostanza, si è uniformata, cosicché, davvero, se ci si limitasse a
giudicare ogni cinecomic secondo questo piano di lettura non sarebbe troppo
assurdo affermare che da circa dieci anni, tutti noi, non stiamo facendo altro
che vedere continuamente lo stesso film
.La sensazione è che tutta
la questione stia venendo liquidata con troppa semplicità. Ne riparlerò in un
secondo momento ed in una sede più adatta, per ora, tuttavia, mi limiterò a
qualche precisazione.
I cinecomics
contemporanei, meglio, il modo di intendere i cinecomics in età contemporanea è
una delle più importanti rivoluzioni nel panorama cinematografico odierno. Gli
universi condivisi Marvel e DC sono entità straordinariamente “vive”. Ogni
singolo elemento al loro interno pulsa di storyline, caratterizzazione,
coerenza e, potremmo quasi dire, autocoscienza. Linee narrative provenienti da
serie tv influenzano gli avvenimenti di un film, spunti provenienti da una
pellicola del 2008 finiscono per gestire, anche solo minimamente, le
motivazioni di personaggi che si muovono in un progetto del 2017. No…il
cinecomic contemporaneo non è la morte del cinema, è, semmai, uno dei modi in
cui il mezzo (del racconto) cinematografico si esprime in tutta la sua forza e tuttavia,
il punto di vista critico di alcuni degli spettatori più intransigenti nei
confronti delle manovre Marvel/DC è per certi versi comprensibile.
Si è sintetizzato un modo
nuovo di intendere il cinema commerciale, ma come in ogni rivoluzione il
raggiungimento di questo traguardo ha comportato il sacrificio di alcuni
elementi che fino a quel momento hanno contribuito a definire il cinecomic per
come lo conoscevamo.
Mancano, ai progetti del
nuovo corso Marvel/DC, delle idee originali (o il riutilizzo originale di
motivi già presenti nell’inconscio collettivo di chi guarda o chi crea), degli
spunti non mediati da una personalità che tiene le fila dei film per mantenerne
la coerenza intrinseca (come puntate di una serie tv); per lo stesso motivo
manca, in regia, una personalità forte che sappia leggere attraverso i suoi occhi,
secondo il suo stile, optando per un atteggiamento vicino alla sperimentazione
(lo stesso di gente come Raimi o Del Toro, che adattarono Spiderman, Hellboy o
Blade secondo le loro scelte peculiari). Mancanza fondamentale, tra l’altro, è
il cosiddetto “Sense Of Wonder”, il sentimento di meraviglia che ognuno di noi
dovrebbe provare (insieme ai protagonisti) ogni qualvolta ci si ritrova ad
osservare dei comuni mortali che prendono coscienza di poter compiere gesta
straordinarie. Senso di meraviglia, che diventa tra l’altro paura, tensione, sconforto
negli istanti in cui ognuno di noi capisce che a confrontarsi con il villain di
turno c’è “solo un uomo”, come me e voi. Il nuovo corso Marvel/DC, lo dicevamo,
ha creato scenari dominati dalla consapevolezza e da uno straordinario
“realismo di fondo”, di conseguenza non ci stupiamo più di nulla, ora è tutto
spiegabile, comprensibile, soprattutto, giustificato narrativamente. E allora,
posta in questi termini la questione si fa più interessante. Entrambi gli
schieramenti, sia i sostenitori dei cinecomics contemporanei sia i suoi
detrattori, hanno preso coscienza del fatto che “qualcosa manca”, l’unica
differenza tra “noi” e “loro” è che noi non diamo peso a queste mancanze,
coscienti del fatto che per evolvere bisogna abbandonare la zavorra, mentre
loro sì.
Le critiche, tuttavia,
sono legittime, ma ecco che qui, esattamente qui, che viene il bello.
Torniamo all’inizio e
proviamo ad andare avanti rispondendo ad una domanda:
Che cosa succede quando
il cinecomic che stavi aspettando da anni lo trovi nell’ultimo posto in cui
pensavi di trovarlo?
Con buona probabilità la
scintilla che ha guidato il lavoro del team creativo su Power Rangers è la consapevolezza di non avere assolutamente nulla
da perdere. Praticamente tutta la squadra è formata da esordienti, il budget è
relativamente basso per un prodotto di questo tipo e, soprattutto, il progetto
in sé, ravvivare un marchio che finora ha ruotato attorno ad un gruppo
guerrieri cosmici in costumi di lycra e rocambolesche ricostruzioni in studio
di scontri tra robot giganteschi e alieni, ha in sé quel retrogusto di follia
che fa dire a chiunque sia coinvolto “dai, divertiamoci, tanto la situazione è
talmente tragica che peggio di così non può andare”.
Ecco, tuttavia, che il
miracolo, effettivamente avviene, ed avviene nell’esatto momento in cui Dean
Israelite e soci, pur partendo dalle premesse di cui sopra, decidono di non
arrendersi all’evidenza, ma di combattere, di sfruttare gli handicap a cui si
trovano di fronte a loro vantaggio.
Power
Rangers è il reset del cinecomic contemporaneo. Si spegne
tutto, si riattivano i circuiti e si ritorna al 1998 con la consapevolezza del
2017. Un piede nel passato ed uno nel futuro in sostanza. C’è il tentativo di
costruzione di un franchise, c’è la scena a metà dei titoli di coda che questo
franchise, quest’universo narrativo, lo attiva, c’è una maturità di fondo, una
crudezza, una cupezza che guarda alla dimensione contemporanea del supereroe al
cinema (ma anche al corto Power/Rangers
Unathorized di Adi Shankar e Joseph Kahn, rivisitazione dark dei personaggi
della Saban) ma c’è anche, sorprendentemente, qualcos’altro. A sostegno del
concept di fondo, ci sono spunti, elementi, idee, provenienti da dimensioni,
contesti, veri e propri film a prima vista lontani dalle atmosfere in cui si muovono
i Ranger Galattici ma che contribuiscono a creare un insieme straordinariamente
coerente e sfaccettato. I ragazzi parlano e agiscono come se facessero parte
del Breakfast Club di John Hughes ed
entrano in contatto con lo “straordinario”, con il meteorite che contiene i
loro dispositivi di trasformazione come i ragazzini di Chronicle di Max Landis. Sono gli stessi adolescenti disfunzionali
di Glee, con gli stessi genitori
assenti di ogni teen-drama e che maneggiano dei manufatti extraterrestri come
farebbero i Goonies.
Al contempo, queste “interferenze” tra il materiale di
partenza e tutto ciò che compone la dimensione dell’intrattenimento
contemporaneo non è solo “orizzontale” ma anche straordinariamente “verticale”.
Non solo cioè Israelite e gli altri costruiscono un film prelevando materiali
da contesti comunicanti, ma il nostro uomo arriva addirittura a girare e
pensare alle vere e proprie sequenze rifacendosi allo stile dei registi da cui
probabilmente ha imparato. Ecco quindi le inquadrature oblique di Michael Bay,
la fotografia di J.J. Abrams, le scene di combattimento che entrano in
comunicazione con il brano pop del momento come nella miglior tradizione dei
film d’azione anni ’90 e si potrebbe andare avanti all’infinito. Un ritorno
alle origini del cinecomic “formale”, ma anche, potremmo spingerci a dire,
squisitamente “etico”, se si pensa che ogni dettaglio della storyline sembra
fatto appositamente per amplificare quel “Sense Of Wonder”, quella ricerca
della meraviglia, che animava progetti di questo tipo in passato. Penso alla
vera e propria “preparazione” della sequenza del Mega-Zord, ma, anche e
soprattutto, a come tutto il senso del film giri attorno ad un “Morphing”, ad
una trasformazione che arriva nel momento più inaspettato, a mezz’ora dalla fine
del film, come una straordinaria epifania salvifica.
Un materiale di partenza
che viene rimodellato e contaminato, stilisticamente e formalmente, dall’occhio
del regista, un’opera di costruzione non solo “originale” ma davvero non
“mediata” da uno sguardo altro, quello del supervisore, dello showrunner di turno
che blocca ogni iniziativa personale a vantaggio della coerenza d’insieme, il
ritorno della vera e propria “meraviglia”, che si addice a dei veri e propri
eroi per forza esattamente come sono tutti i personaggi dei fumetti o quasi. Se
è vero che forse Power Rangers non
vuole porsi dichiaratamente come rinascita del cinecomic contemporaneo, ebbene
è altrettanto certo che il film di Dan Israelite mostra comunque una nuova via
di trattare la trasposizione a fumetti al cinema, lontana dalle spire
oppressive delle multinazionali dell’intrattenimento e da un controllo creativo
a volte troppo stringente. Israelite riscopre, in sostanza, il cuore, il
coraggio di osare l’umiltà nei confronti dei maestri del passato, le stesse tre
caratteristiche che fondamentalmente furono alla base dei primi film del
genere, gli stessi tre elementi che guidarono personaggi come Sam Raimi (i cui Spiderman hanno più di un debito nei
confronti di Lucio Fulci) e Guillermo Del Toro (pensiamo a come i suoi Hellboy) siano influenzati dall’estetica
Lovecraftiana.
Alessio Baronci
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