Viviamo in tempi curiosi (o meglio, “interessanti”, citando un bel volume di Slavoj Zizek il cui titolo si rifà ad un detto cinese). Tempi in cui alcuni concetti, alcuni sistemi di riferimento che finora hanno regolato la nostra vita quotidiana sono radicalmente cambiati e di conseguenza costringono a cambiare noi, che usufruiamo di questi sistemi, di queste categorie.
Alla fine degli anni ’70 Pierre
Bourdieau distrugge e ricostruisce da zero il concetto di gusto e ricezione da
parte di un pubblico di un’opera d’arte. Il volume attraverso cui avviene
quella che è a tutti gli effetti una rivoluzione culturale è La Distinzione, ne parlerò più
approfonditamente nel corso della chiacchierata-fiume, ma per ora basta dire
che ci troviamo di fronte al momento in cui la Critica Del Giudizio di Kant (e con essa il concetto di “Bello
Universale”) va in mille pezzi. Bella botta, non c’è che dire.
Cambia il concetto di
gusto nel pubblico, ma cambia, anche e soprattutto, il modo in cui questo gusto
si organizza, si tematizza, prende corpo e viene comunicato all’interno del
pubblico. Il centro di tutto, in questo senso, sembrano essere quei social
network che da una decina di anni a questa parte costituiscono volente o
nolente una nostra emanazione digitale cosciente.
Su Facebook la gente
comune si ritrova, gli appassionati di una determinata forma d’arte possono
trovare una vena di sfogo e hanno possibilità di confrontarsi con emeriti
sconosciuti su un determinato film, un determinato disco, un determinato
regista e, soprattutto, possono esprimere una loro opinione. Proprio
quest’elemento, questa “democratizzazione dell’opinione”, è il centro del
nostro discorso ed è, allo stesso tempo, la problematica forse più importante
del contesto culturale e artistico che qui sto provando ad osservare.
Da quindici anni a questa
parte, bene o male, chiunque ha la possibilità di dire ciò che vuole e può
dirlo ad un bacino di utenza teoricamente infinito (così come virtualmente
infinita è quella rete internet che è il mezzo di comunicazione centrale degli
anni ’00). È, ovviamente, un’occorrenza straordinariamente positiva, quella con
cui ci stiamo confrontando (forse mai prima d’ora si è avuta una libertà di
opinione e comunicazione così alta) e, tuttavia, a questa possibilità, a questa
stessa opportunità, occorre in realtà pochissimo per finire in scacco e per
mostrare il fianco.
Se è vero che ora tutti
possono esprimere un’opinione, è anche vero che un buon numero di persone
semplicemente parlano non soltanto senza avere un’adeguata conoscenza di quella
stessa forma d’arte che vorrebbero commentare, ma soprattutto, senza conoscere (e,
cosa ben più grave, senza voler conoscere) quello stesso contesto a metà tra il
socio-culturale ed il produttivo che accoglie i prodotti artistici che
attirano, nel bene e nel male, la loro attenzione.
Sgombriamo il campo da
prevedibili equivoci. Paradossalmente, non è un problema troppo grave parlare,
ad esempio, di cinema senza conoscere qualche rudimento di regia, fotografia,
inquadrature, costruzione delle storie e via dicendo. È, forse, indelicato, ma
allo stesso tempo il cinema, così come la musica o la pittura, è arte in primo
luogo emozionale, quindi spesso il nostro giudizio può giocarsi tutto
sull’impatto emotivo che quel determinato film ha esercitato su di noi.
Dopotutto, quante volte, noi stessi, abbiamo apprezzato film tecnicamente
brutti ma che sono stati capaci di scuotere alcune corde del nostro essere che
neanche noi sapevamo di avere. E al contempo, quante volte, un determinato prodotto,
magari recensito con voti altissimi, premiato con uno straordinario numero di
riconoscimenti, ci è risultato indifferente, semplicemente perché non è
riuscito a “parlarci nel modo giusto”.
Il problema grave, semmai,
è un altro.
Di nuovo, procediamo per
gradi. Pensiamo, in primo luogo, al cinema degli anni ’00. Si tratta di un
cinema che, lentamente, si avvicina alla televisione, nella misura in cui esso
si “serializza” (pensiamo ai cinecomic Marvel o DC); di un cinema in cui,
almeno apparentemente, dominano quei blockbuster, film ad alto budget e poca
sostanza che sembrano “corrompere le menti” degli spettatori meno avveduti,
conducendoli lontano dal “Vero Cinema”, quello d’autore, che in questi anni
arranca e pare perdere forza ogni giorno di più. Ancora, pare che gli anni ’00
siano gli anni in cui vanno in crisi da un lato un luogo, la sala
cinematografica, dall’altro la distribuzione cinematografica, che penalizza i
piccoli prodotti autoriali e privilegia i film a più alto impatto commerciale.
In ultimo, impossibile non annotare come, a detta dei più allarmisti, negli
ultimi anni il cinema affanni in una sorta di “aurea-mediocritas”. Non esistono
più film memorabili, la dimensione cinematografica nella maggior parte dei casi
si sclerotizza di fronte all’ennesimo remake, reboot o franchise, insomma, non
c’è più “roba nuova”.
Stanti queste premesse,
proviamo ad ampliarle, unendo i puntini dei ragionamenti che ci hanno condotto
fin qui. Il cinema contemporaneo sembra essere in crisi, il gusto del pubblico
sta subendo dei radicali cambiamenti ed ecco che internet, ecco che i
social-network, sembrano essere il mezzo e la dimensione più adatta per
raccogliere il disagio provato dagli spettatori a contatto con questo contesto
artistico in rovina.
Tuttavia, proprio qui si
pone alla nostra attenzione un elemento interessante.
Facendo un giro su
Facebook, interagendo con i vari appassionati di cinema che popolano i
numerosissimi gruppi dedicati alla Settima Arte che animano il social network è
lampante come questa supposta crisi del cinema sia percepita in maniera
straordinariamente intensa solamente da un determinato categoria di utenti. Si
tratta di persone tra i trentacinque ed i sessanta anni, da persone che, in
buona sostanza, hanno vissuto in presa diretta, hanno toccato con mano, vari
“momenti d’oro” del cinema (I film di Totò o Alberto Sordi, i grandi musical,
il cinema dei divi americani, la rinascita della fantascienza degli anni ’80 e
chi più ne ha più ne metta). Solo questa categoria di individui sembra soffrire
in maniera più marcata dell’apparente “crisi di valori” del contesto
cinematografico contemporaneo, diversamente dalle generazioni più giovani che,
prevedibilmente, sono galvanizzate dall’ennesimo cinecomic, dall’ottavo
episodio di un franchise pluriennale, dalla nuova serie tv di Netflix.
Il motivo di questo gap
generazionale è presto detto: le precedenti generazioni si sono confrontate per
la maggior parte della loro vita con una dimensione cinematografica fissa e
rassicurante (sia per quanto riguarda i film in sé, che per quanto riguarda la
dimensione di fruizione del film, come si vedrà), mentre sembrano rifiutare il
contesto artistico “accelerato”, in perenne mutamento espansione, variazione,
trasmigrazione di significati che caratterizza l’età contemporanea (in cui,
invece, i più giovani sembrano trovarsi istintivamente a loro agio).
Se è vero che l’esistenza
e le cause di questo gap generazionale tra spettatori giovani e vecchi sono
elementi quasi banali da riconoscere, forse non altrettanto banale è la
reazione che proprio le vecchie generazioni esercitano nei confronti di questo
contesto, a loro dire, di crisi della Settima Arte.
Due sono i tratti che
accomunano lo sguardo di un buon numero di trentenni, quarantenni,
cinquantenni, sessantenni al cinema contemporaneo. Il primo è il rifiuto:
spesso essi infatti si rifiutano di accettare la naturale evoluzione del
cinema, i nuovi generi, le nuove modalità di mercato, i nuovi prodotti, la
serialità televisiva. Si rifiuta il cambiamento, si bolla tutto come vuoto,
privo di contenuti, brutto, senza riflessione, senza distinzione perché, lo si
sarà capito dai ragionamenti che ci hanno condotto fin qui ma lo si ricorda
ora, il contesto contemporaneo con cui questi individui si confrontano è troppo
complesso, sfaccettato, mutevole da comprendere per loro e dunque, piuttosto
che armarsi di umiltà, ammettere i propri limiti e, semplicemente, informarsi o
chiedere delucidazioni, si preferisce rifiutare, negare l’evidenza, mettere la
testa sotto la sabbia e tornare nei propri rifugi sicuri.
Il secondo tratto in
effetti è proprio il rifugio. Si capisce particolarmente questo discorso nel
momento in cui si torna a dare un’occhiata, su Facebook, a tutti quei gruppi
animati da appassionati di cinema legati a generazioni passate. Anche ad
un’osservazione superficiale, si capisce bene come la maggior parte di questi
ritrovi virtuali si presenti, in sostanza, come una serie di basiliche in cui
si celebrano le vestigia di un passato ormai perduto. Foto di vecchi attori,
locandine di film di un’apparente golden-age del cinema che ora non c’è più,
biografie di registi classici, post in cui, con semplici parole o formule
(“Magnifico!”, “Straordinario!”, “Stupefacente!”), si celebrano determinate
sequenze o scene di capolavori del passato, sottintendendo che film del genere
non torneranno mai più.
Non si parla mai, in
questi luoghi, di cinema o serialità televisiva contemporanea (ci si ferma,
spesso, alla metà degli anni ’90). Sarebbe sacrilego, a detta di questi “Diaconi
Della Vera Arte”, riferirsi in effetti ad un contesto così spurio, inquinato,
commerciale, vuoto. Meglio, piuttosto, rifugiarsi in un passato monumentale,
positivo, fisso, rassicurante, privo di scossoni o novità, fatto di attori
sorridenti e da narrazioni convenzionali.
Ma è davvero così? Il
cinema contemporaneo è davvero morto?
Assolutamente no, il
problema, semmai, è un altro, ma ci arriveremo.
L’obiettivo di A Che Punto è La Notte? è proprio
questo. Organizzare una riflessione su più fronti attorno al cinema
contemporaneo, cercando di far comprendere a chiunque abbia voglia di leggere
che il cinema contemporaneo è certo diverso da quello degli anni passato ma non
per questo è morto o vuoto, anzi, sembra più vivo che mai. Il titolo del
dossier è dunque ironico. Non esiste, a tutt’oggi, una “Notte Del Cinema”, un
momento di calo qualitativo dello stesso, esistono, quello sì, film belli e
film brutti, ma la morte della Settima Arte è lontana se non lontanissima.
La costruzione di A Che Punto è La Notte? punta alla
libertà e alla multimedialità più completa.
Procederà in parallelo
alle attività del blog, in forma duttile, senza seguire regole di periodicità
ben precise e si comporrà di analisi di alcuni casi esemplari (film o serie
tv), tavole rotonde, video saggi e vere e proprie indagini ai limiti
dell’antropologico sullo spettatore contemporaneo.
L’obiettivo del dossier
in realtà è semplice e al contempo rischiosissimo.
Si procederà infatti a dimostrare che il cinema contemporaneo ha ancora qualcosa da dire (anche nei versanti in cui esso appare istintivamente più “vuoto” come i cinecomics o i blockbusters), che è ancora ricco di un’insperata complessità di fondo che è ancora “vivo”, in sostanza.
Al contempo, tuttavia, se
è vero che il cinema contemporaneo è straordinariamente attivo e “nel tempo”,
colui che appare straordinariamente “fuori tempo massimo” è proprio quel
profilo spettatoriale a cui prima accennavamo.
Non è il cinema ad aver
bisogno di una rinascita, di una ricostruzione da zero, piuttosto, ed il centro
dello studio è proprio questo, è imperativo che a cambiare sia proprio quello
spettatore “over” che rifiuta il cambiamento, che dice che fa tutto schifo, che
celebra il passato monumentalizzandolo, che, semplicemente, non riesce a tenere
il passo con la contemporaneità e preferisce la sicurezza di un odioso
atteggiamento da Radical-Chic.
Questo long-read è
diretto soprattutto a loro. Se tra coloro che in questo momento stanno leggendo
queste righe c’è qualcuno che si riconosce nel profilo che finora ho tracciato,
a costui dico: “non è il cinema a dover cambiare, piuttosto è il tuo rapporto
con esso che deve subire una mutazione. Comprendilo, o sarai condannato a
essere lasciato indietro, e a perderti tutta la bellezza del momento”.
Due doverose precisazioni
in chiusura. L’intento di tutto lo studio non è riconoscere come la
contemporaneità sia un’età “artisticamente perfetta”, quanto piuttosto
ammettere che il cinema degli anni ’00 è ancora ricco di cose da dire. Escono
ancora film o serie tv orribili, questo senz’altro, mi spingo fino a dire che
escono molte più amenità ora che in passato ma ciò non vuol dire che ci
troviamo in un contesto culturale vuoto o privo di stimoli.
Altro elemento necessario
da precisare: celebrare il passato non è un male. Ricordare i film con Gregory
Peck o James Stewart, ripostare sui Social una sequenza di Rope di Hitchcock è una cosa estremamente positiva da fare,
soprattutto perché dal passato si proviene ed il passato costruisce il futuro e
la contemporaneità. Al contempo però, altamente controproducente è soffermarsi solo
sul passato senza aprire gli occhi, senza guardare al presente. Quello è il
male, quella è la strada per la sterilità e la vuotezza di senso.
Speriamo che A Che Punto è La Notte? aiuti a fare
chiarezza su questi aspetti.
Alessio Baronci
Riproduzione Riservata
Alessio Baronci
Riproduzione Riservata
Nessun commento:
Posta un commento