Si potrebbe partire dal
nulla, o meglio, da una particolare forma di nulla, l’annullamento del sé.
Senza piegarci troppo ad un nichilismo di maniera, potrebbe essere proprio
questa la chiave d’accesso per iniziare ad addentrarci nelle profondità di un
personaggio come il vigilante armato un tempo noto come Frank Castle.
Fa quasi impressione dirlo ma se c’è una cosa che accomuna lui, oscuro ex agente delle forze speciali americane ora convertito a crociato in missione per ripulire la città dalla criminalità che la tiene in ostaggio e noi, spettatori delle sue operazioni, forse allo stesso modo ostaggi della sua presenza, proprio perché inquietantemente impossibilitati a distogliere lo sguardo da ciò che sta facendo, impossibilitati ad opporci a lui, anche solo ideologicamente, perché non possiamo far altro che sostenerlo, appoggiarlo, condividere la natura della sua missione, per quanto controversa essa possa apparire è proprio quest’annullamento. Annullamento del sé. Annullamento di Frank, che dopo la morte della sua famiglia diventa nulla ed in quanto puro nulla (nulla “burocratico”, “politico”, perché nessun documento riconducibile alla sua identità esiste più dopo l’attentato, ma anche nulla “sentimentale”, perché dopo che le sue ancore emotive, i figli e la moglie, sono stati uccisi, Castle è più simile ad un guscio vuoto privo di sentimenti) si muove nei quartieri degradati di New York per dare alla città quella forma di giustizia distorta che tanto egli ha atteso ma che mai è riuscito ad ottenere, seguendo un modus operandi che contrappone la precisione e la cura strategica dell’attacco ad un bersaglio ad una sorta di annullamento dell’archetipo dell’uomo – cacciatore (Castle non sembra seguire una particolare “via” nella ricerca dei suoi bersagli, per lui chiunque sia armato ed abbastanza ambizioso da iniziare una scalata nel sottobosco criminale è automaticamente una minaccia per la sua città). Annullamento che è anche un po’ nostro perché, come ho detto poco fa, probabilmente il modo migliore per far accettare al nostro subconscio le azioni che Frank compie sullo schermo, guidato da un distorto senso di giustizia, è quella di annullarci noi stessi, in quanto spettatori, e rivedere il nostro senso critico almeno per il tempo in cui il Punitore è sullo schermo, perché ciò che fa Castle è troppo impegnativo da accettare sul piano etico? Forse, e tuttavia, probabilmente, si potrebbe approfondire ancora di più il senso di questa risposta, come si vedrà tra poco.
Fa quasi impressione dirlo ma se c’è una cosa che accomuna lui, oscuro ex agente delle forze speciali americane ora convertito a crociato in missione per ripulire la città dalla criminalità che la tiene in ostaggio e noi, spettatori delle sue operazioni, forse allo stesso modo ostaggi della sua presenza, proprio perché inquietantemente impossibilitati a distogliere lo sguardo da ciò che sta facendo, impossibilitati ad opporci a lui, anche solo ideologicamente, perché non possiamo far altro che sostenerlo, appoggiarlo, condividere la natura della sua missione, per quanto controversa essa possa apparire è proprio quest’annullamento. Annullamento del sé. Annullamento di Frank, che dopo la morte della sua famiglia diventa nulla ed in quanto puro nulla (nulla “burocratico”, “politico”, perché nessun documento riconducibile alla sua identità esiste più dopo l’attentato, ma anche nulla “sentimentale”, perché dopo che le sue ancore emotive, i figli e la moglie, sono stati uccisi, Castle è più simile ad un guscio vuoto privo di sentimenti) si muove nei quartieri degradati di New York per dare alla città quella forma di giustizia distorta che tanto egli ha atteso ma che mai è riuscito ad ottenere, seguendo un modus operandi che contrappone la precisione e la cura strategica dell’attacco ad un bersaglio ad una sorta di annullamento dell’archetipo dell’uomo – cacciatore (Castle non sembra seguire una particolare “via” nella ricerca dei suoi bersagli, per lui chiunque sia armato ed abbastanza ambizioso da iniziare una scalata nel sottobosco criminale è automaticamente una minaccia per la sua città). Annullamento che è anche un po’ nostro perché, come ho detto poco fa, probabilmente il modo migliore per far accettare al nostro subconscio le azioni che Frank compie sullo schermo, guidato da un distorto senso di giustizia, è quella di annullarci noi stessi, in quanto spettatori, e rivedere il nostro senso critico almeno per il tempo in cui il Punitore è sullo schermo, perché ciò che fa Castle è troppo impegnativo da accettare sul piano etico? Forse, e tuttavia, probabilmente, si potrebbe approfondire ancora di più il senso di questa risposta, come si vedrà tra poco.
E dunque, questo viaggio
che sto per iniziare servirà non tanto (e non solo) a delineare un profilo del
Punitore di Netflix, quanto piuttosto a capire come mai, in un modo o
nell’altro, Frank Castle è forse l’unico antieroe verso cui tutti noi, senza
ombra di dubbio, ci siamo trovati a parteggiare. Tre atti, tre parti, tre
scalini che ci condurranno nel punto di contatto ultimo tra NOI e LUI, nel
tentativo di comprendere quella che è forse una delle verità più scomode da
riconoscere per noi in quanto spettatori.
One Batch: Punizioni, Pallottole, Schegge
Impazzite
C’è qualcosa di
straordinariamente tradizionale nella prima apparizione del Punitore di Joe
Bernthal nella serie. Quando Gerry Conway concepì per la prima volta il personaggio
del vigilante con il teschio pensò di trattarlo come villain, almeno inizialmente,
salvo poi riservarsi il (sadico) piacere di poter far intraprendere alla sua
creatura un arco di evoluzione tale da dotarlo, tempo un anno, un anno e mezzo al
massimo, di tutti i caratteri dell’eroe al servizio del bene, insomma, in una
sola, singola frase: da cacciatore di ragni ad alleato dello spara ragnatele
nel giro di qualche mese. Il dettaglio straordinariamente interessante in
questo senso è che per Drew Goddard e per gli altri ragazzi della writer’s room
il personaggio di Frank Castle non è, appunto, un “personaggio” ma un terreno
operativo su cui strutturare una caratterizzazione del Punitore che sia, prima
che coerente con il fumetto e rispondente allo spirito iniziale del personaggio
nell’impronta di Conway, semplicemente, cosciente del contesto socio-culturale
in cui va ad inserirsi. “Cosa tengo e cosa lascio andare nel momento in cui ho
deciso di scrivere la mia versione del Punitore?” è questa, semplicemente
questa, la domanda in due parti che ha funzionato da faro guida per il team di
scrittura nel momento in cui questa strana entità creativa si approccia alla
progettazione della serie ed è solo provando a rispondere a questa domanda che
possiamo quantomeno tentare di addentrarci all’interno del vero e proprio
tessuto di significati che porta il nome di Punisher.
E dunque, (la premessa di poco potrebbe già aver detto molto in questo senso) è
abbastanza chiaro che se c’è qualcosa del Castle fumettistico che Goddard ed il
resto della squadra decidono di tenere e reinserire nel flusso della
caratterizzazione del loro Punitore è proprio il suo essere un’entità di
difficile catalogazione all’interno dell’universo Marvel (forse l’unica che si
muove effettivamente tra due estremi psicologici così distanti in quel
contesto). Per le prime due o tre puntate della serie, noi spettatori Frank
Castle neanche lo vediamo: lo sguardo della macchina da presa (quello che è in
fondo il nostro sguardo) arriva sempre un attimo prima o un attimo dopo il
passaggio del vigilante. In questo modo assistiamo o agli ultimi respiri dei
suoi bersagli o ai rilevamenti della polizia nei teatri delle varie stragi ed
operazioni di Frank e tuttavia, almeno in un primo momento, la diegesi non ci
dà mai la possibilità di guardare Castle negli occhi mentre agisce. Si potrebbe
pensare che tutto ciò faccia parte di un meccanismo di difesa per lo
spettatore, il quale, almeno secondo gli secondo gli sceneggiatori, non è
ancora pronto per fare i conti con un personaggio così complesso e negativo e
tuttavia, fermandoci a questa considerazione non faremmo altro che scalfire la
superficie di un’argomentazione ben più complessa di quanto appaia. Stiamo
assistendo infatti fin d’ora, fin dal confronto con questo piccolo dettaglio di
caratterizzazione, al processo di rimessa in gioco, all’interno di un
immaginario collettivo ormai irrimediabilmente modificato dal contatto con i
media e con un pubblico che ha imparato a rapportarsi in una maniera
completamente nuova con il concetto di Male, del personaggio di Frank Castle.
La base caratterizzante da cui si parte è la stessa del fumetto e tuttavia il
modo in cui questa base viene sviluppata non può essere più lontana dal mondo
del racconto cartaceo ed al contempo più vicina ad un certo modo di intendere
il racconto nel cinema classico: c’è un alone quasi retrò in questa volontà
paradossale di nascondere il male nel tentativo di esorcizzarlo e tuttavia
ottenendo l’effetto contrario, ammantando di potenza ed inquietudine le azioni
di un personaggio al confine tra l’umano ed il super umano. In fondo, con i
dovuti distinguo, il cinema espressionista ragionava allo stesso modo.
E tuttavia, se è vero che
agire all’interno di una griglia di caratterizzazione del personaggio
completamente libera vuol dire giocare fondamentalmente con il concetto di
media cinematografico ed espandere, grazie al sistema della settima arte i
tratti psicologici base di Frank Castle ed il suo impatto con lo schermo,
arrivando a considerare per questo il mezzo televisivo come una sorta di
gigantesco parco giochi, un’esperienza ludica con cui divertirsi e far
divertire lo spettatore, è abbastanza curioso notare come sia valida anche una
considerazione di valore contrario. Lo abbiamo visto poco fa, quando Frank
Castle fa il suo esordio sulla carta stampata il suo codice morale è certamente
ambiguo e tuttavia, a lungo andare, il pubblico si è abituato a considerare il
mercenario con il teschio un combattente tra le fila dei buoni. È normale che
si assista a questo arco evolutivo, anzi, è anche giusto, per certi versi e
tuttavia, non è altrettanto vero che una situazione del genere ci soddisfi in
quanto spettatori. Un manicheismo del genere (prima un personaggio
completamente negativo, poi una “conversione” ai limiti del comodo, più per
necessità di aumentare l’empatia con il pubblico e dunque gli incassi che per
desiderio di approfondire la sua psicologia) sa di vecchio, è irreale,
soprattutto, viene assolutamente rifiutata da un inconscio collettivo ormai
abituato a progetti seriali che si dilungano per decine di puntate al fine di
sviluppare la caratterizzazione di un qualsiasi agente di scena in tutte le sue
parti. Questo strano arco di Castle è presente anche nella serie di Goddard (è,
fondo, ciò che la writer’s room sceglie di tenere rispetto al materiale
presente nel fumetto) e tuttavia, anche in questo caso, queste linee di
caratterizzazione non sono altro che puri mattoni, meglio, pura creta da
modellare secondo le necessità della narrazione e della caratterizzazione del
personaggio. Una volta capito che si hanno a disposizione tredici puntate da
un’ora su cui strutturare l’arco narrativo di Frank Castle e dunque qualcosa
come tredici ore totali in cui poter gestire una caratterizzazione che
finalmente risulti approfondita (piuttosto che una decina di albi da una
manciata di pagine ciascuno), in primo luogo quel senso di manicheismo
superficiale che sulla carta caratterizzava l’evoluzione del Punitore sparisce
ed assume i tratti di un viaggio coerente nella psiche di un uomo distrutto
dagli eventi, ma soprattutto, si assiste a qualcosa di estremamente
particolare: un po’ come hai già fatto con personaggi come Don Draper o Walter
White, tu spettatore arrivi a dubitare dell’atteggiamento di Castle. L’uomo che
stai guardando, è, semplicemente, troppo impulsivo, folle, mentalmente a pezzi
per compiere una qualsiasi decisione strategica razionale. Il Castle di Goddard
è un pazzo con un arsenale per le mani e con tutte le capacità e le abilità per
organizzare una piccola guerra. Deve essere fermato? Per Goddard e gli altri
questa non deve essere una nostra preoccupazione, ci penserà la diegesi (o il
Diavolo, più semplicemente) a risolvere il problema, tuttavia, ecco se c’è
qualcosa che noi in quanto spettatori possiamo fare nel rapportarci a Castle è,
semplicemente, utilizzare un certo senso critico per capire esattamente chi
stiamo guardando, meglio, con chi stiamo entrando in contatto emotivo. Il
Punisher di Goddard è un villain? No, quello senz’altro no, anche perché gli
autori non tradirebbero mai fino a questo punto la fonte originale; è un
antieroe? Sarebbe una definizione troppo semplice per un personaggio del
genere. Ma allora con chi abbiamo a che fare? Semplice, di fronte a noi c’è un
personaggio multiforme, nei confronti del quale ognuno di noi può entrare in
contatto come vuole, secondo il proprio sentire, senza mai però poter evitare,
quella strana sensazione di confrontarsi con un personaggio borderline,
costantemente intrappolato in un limbo di incomunicabilità che da un lato
blocca la sua ricerca della verità e dall’altro lo fa apparire molto meno
“eroico” di quanto in realtà sia mai apparso fino ad ora, sensazione tra
l’altro straordinariamente ben amplificata dalla writer’s room che puntualmente
costella la narrazione di elementi legati alla storyline di The Punisher che non fanno altro che far
traballare la sua già precaria caratterizzazione in questo senso (come il suo
intervento al salvataggio di Daredevil sul finale, clamorosamente esaltante ma
al contempo straordinariamente forzato oppure il volutamente poco approfondito
omicidio dei suoi familiari, nel fumetto elemento scatenante della
trasformazione di Castle, nella serie dettaglio mai troppo approfondito, un po’
come a voler dire che Frank è sempre stato un po’ instabile, non serviva certo
la strage della sua famiglia per scatenare il mostro). Di nuovo dunque, il
Punitore della serie Netflix appare come una sorta di scheggia impazzita
all’interno della cultura visiva contemporanea, sorta di perfetto punto di
contatto tra la tradizione del cartaceo e l’inconscio collettivo di colui che
guarda, a tal punto che la sua caratterizzazione arriva a mettere in dubbio
tutto ciò che chi legge (e che guarda) aveva conosciuto fino a quel momento di
lui.
Two Batch…: Il Diavolo Ed Il Teschio
Se si volesse
sintetizzare con un’immagine il rapporto che intercorre tra Frank Castle (che
di fatto è il villain della storyline almeno nella sua prima parte) ed il
diavolo di Hell’s Kitchen si potrebbe utilizzare senza problemi quella di un
uomo che sta affondando nelle sabbie mobili. È strano, in fondo avrei potuto
scegliere un simbolo ben più aggressivo o “tradizionale” per certi versi, per
descrivere un sistema di forze apparentemente così violento, una pistola, un mitra,
un personaggio che conficca il pugnale nel costato del suo avversario e
tuttavia, probabilmente l’optare per un’immagine così paradossale ma al
contempo così efficace fa il pari con un rapporto che definire paradossale è il
minimo. Basta in realtà pochissimo per comprendere come, anche in questo caso,
il primo passo per addentrarci in questo rapporto tra entità sceniche, è il
riconoscere quanto in realtà, in quanto spettatori, ci troviamo a muoverci in
una zona liminale. Malgrado le premesse, i confronti tra il Diavolo di Hell’s
Kitchen ed il vigilante sono minimi, dal dubbio esito e soprattutto, dalle
modalità e dallo svolgimento per certi versi inaspettati. In primo luogo ci
troviamo di fronte a scontri in cui l’elemento psicologico sembra avere la
meglio: Castle non spara praticamente mai contro il suo avversario, anzi,
l’unico colpo che parte dalla sua arma manca volutamente qualsiasi organo
vitale di Matt Murdock e va a conficcarsi nel casco protettivo della sua
armatura; al contempo non possiamo neanche definire senza problemi le lotte tra
queste due entità come prettamente fisiche. L’unica scazzottata propriamente
detta tra il Diavolo ed il Vigilante è uno scontro a pugni estremamente
coreografico e tuttavia al contempo portato avanti da due uomini che si
picchiano senza troppo convinzione. In sostanza è un pari senza vincitori né
vinti, con l’avversario (Murdock) che viene sconfitto più per sottomissione che
per effettivo knockout. Non sono le armi, a strutturare lo scontro tra queste
due entità sceniche, non sono neanche i calci o i pugni, ma allora qual è la
chiave di volta di questo confronto? Ebbene fa strano dirlo ma il confronto tra
il Diavolo ed il Teschio è uno scontro sentimentale, ed è abbastanza chiaro che
questo sentimento fondante sia la paura.
Tuttavia, descrivere questa lotta
con l’aiuto di un solo termine appare riduttivo. Se davvero è la paura a tenere
le fila di questo scontro, sia chiaro che si sta parlando di un sentimento
multiforme, capace di rimanere sé stesso per tredici puntate, ma anche di cambiare
forma, di approfondirsi, di espandere il proprio orizzonte simbolico. Forse
l’unica vera esperienza legata ad una forma pura di paura Matt la prova nel
momento in cui la pallottola lo colpisce in testa e cade privo di sensi per una
decina di metri, ecco, quella sì, quella è paura e tuttavia, da quel momento in
poi la situazione cambia. È (ancora) paura ma non è più completamente solo
paura, quella che prova il giovane avvocato quando, legato ed immobilizzato su
un tetto, impossibilitato a fare qualsiasi cosa e costretto ad assistere
impotente alle azioni di Castle, si ritrova a confrontarsi con il suo
carceriere riguardo ai loro metodi operativi di vigilanti, fino a chiedersi chi
tra i due sia davvero in torto, se lui, che compie il male per ottenere il bene
protetto ipocritamente da quella fede cattolica che sembra giustificare il
senso delle sue azioni o Castle, sicuramente più violento ma anche,
curiosamente, molto meno ipocrita e più “sincero” e diretto nei confronti di
quella società che intende proteggere. È paura, lo si è detto, ma è una
sfumatura molto particolare di paura, molto simile al dubbio, all’incertezza
che aggredisce il proprio io e fa mettere in dubbio la propria integrità morale
ed il senso della propria azione, è un sentimento che al netto dei fatti è per
certi versi molto più pericoloso, subdolo, rispetto alla pura paura, forse
perché tende, lento ed inesorabile, ad immobilizzare, a bloccare colui che lo
prova (e qui è straordinario il parallelismo con un Devil legato sia
interiormente che esteriormente). Il punto più alto di questo trattamento del
sistema psicologico sotteso alla serie si raggiunge nell’ultimo atto della sua
prima parte. Dopo uno dei turning point più destabilizzanti degli ultimi anni,
un Punitore in manette sale sul banco degli imputati per sostenere il processo
che probabilmente finirà per condannarlo alla sedia elettrica. A sostenere una
difesa estrema dell’imputato c’è lo studio Murdock, che dopo una serie di
udienze apparentemente interminabili, riesce ad ottenere il patteggiamento di
Castle. Qui però il tessuto simbolico della serie sembra aprirsi. In un primo
momento il vigilante accetta di ammettere le proprie colpe, salvo poi rimangiarsi
tutto in tribunale e fondamentalmente fare a pezzi tutto il castello difensivo
organizzato da Matt e Foggy. È una svolta narrativa, questa, che colpisce lo
spettatore in maniera diretta e quasi gratuita, a tal punto che chi guarda non
si rende neanche conto del vero potenziale di quanto ha appena visto e
tuttavia, forse conviene spendere qualche parola su quanto è appena avvenuto in
scena. È, in fondo, un’ulteriore forma di paura quella che vediamo in azione
qui, una paura che aggredisce nuovamente Devil stavolta mascherata, per certi
versi, da un sentimento legato ad una sorta di perdita di identità. Murdock è
stato trasportato sul suo terreno operativo (il tribunale) ed è stato sconfitto
in maniera gratuita ed insensata dall’ultima persona da cui si aspettava una
mossa del genere, il quale ha fatto a pezzi ogni suo sforzo lasciandolo
praticamente con nulla in mano. Guardando la questione da un’altra prospettiva,
l’azione di Castle priva il Diavolo di Hell’s Kitchen della terra sotto i piedi
ed in un certo senso lo abbatte non tanto per il suo essere azione sconsiderata
ed inaspettata ma in quanto azione che priva il protagonista di un qualsiasi
orizzonte di cambiamento e miglioramento. È un po’ come se Murdock fosse stato
privato della sua identità di avvocato, rappresentante legale delle forze del
bene ed esponente di una categoria professionale che porta alla luce del sole,
che ammanta di liceità, quella difesa dei deboli che Matt svolge anche di notte
venendo però considerato, almeno all’inizio, alla stregua di un vigilante fuori
controllo. Destabilizzato da quel primo confronto con Frank sul senso delle sue
azioni, ora il Diavolo di Hell’s Kitchen viene fondamentalmente annichilito
nella sua essenza. Già, perché se il mondo non vuole che tu sia un vigilante e
le circostanze fanno in modo che tu venga privato anche della tua professione
rispettabile, allora che cosa sei? Che cosa ti rimane?
Nello scontro tra il
Punitore e Daredevil dunque riemerge nuovamente quell’elemento estraneo, quella
scheggia impazzito che abbiamo imparato a conoscere poco fa e che contribuisce
a ridefinire il tessuto di significati che regge la serie. Un confronto che ci
si aspetta essere dinamico diventa inaspettatamente statico, un conflitto
fisico si trasforma in un conflitto dialettico, fondato sulla parola più che
sulle pallottole, più sul gioco di forze che sulla forza bruta.
…Penny And Dime: Castle E Noi
Viene da chiedersi a
questo punto, quasi in chiusura, in appendice, che tipo di rapporto può
intrecciarsi tra il Punitore e noi spettatori che lo guardiamo agire sullo
schermo. Qualche riga fa ho detto che, in quanto personaggio dalla psiche
multiforme, ognuno di noi può entrare in contatto con il personaggio di Frank
Castle come meglio vuole, senza mai dimenticare però di esercitare quel senso
critico che mai dovrebbe mancare nello spettatore quando si avvicina a
personaggi di questo tipo. Poche parole per un definizione forse rapida ed
efficace ma al contempo incompleta: come mai dovremmo esercitare un senso
critico di questo tipo a contatto con la psicologia di Castle? Solo perché ci
troviamo di fronte ad un personaggio così ambiguo? No, o meglio non proprio.
Facciamo saltare in aria l’elefante nella stanza: il Frank Castle di Netflix
non è solo ambiguo è letteralmente un personaggio scomodo. In lui si
concretizzano, lo abbiamo visto durante tutto questo viaggio, i lati più oscuri
che contraddistinguono l’interiorità di ciascuno di noi, perché signori, è
inutile girarci intorno, ognuno di noi può essere altrettanto vendicativo,
calcolatore o semplicemente malvagio. Se a questo si aggiunge il fatto che
Castle agisce in scena, dunque espone questa sua interiorità, in modo comunque
carismatico e seducente per lo spettatore (bene o male The Punisher è il personaggio preferito di molti spettatori e la
recente notizia che Netflix dedicherà al personaggio una serie stand-alone è
stata accolta con il clamore che ci si aspettava) si comprende come in realtà
la caratterizzazione del Frank Castle, meglio l’impatto che tale
caratterizzazione ha sullo spettatore, è a tal punto profondo da meritare un
attimo di riflessione. Fa strano dirlo, ma ci troviamo di fronte ad una
situazione che ricorda molto il contesto delle prime proiezioni
cinematografiche un centinaio d’anni fa, occasioni sociali in cui il pubblico
sperimentava su di sé l’empatia, il desiderio di essere come i protagonisti
delle storie che stava guardando sullo schermo, momenti in cui gli spettatori,
semplicemente, volevano vivere le avventure che in quei momenti potevano solo
vedere. Una parte di noi, di tutti noi, la più oscura, meglio, la più nascosta,
vorrebbe essere esattamente come Frank Castle, anche solo perché di fronte a
noi c’è un uomo che mostra in sé un coraggio, una risolutezza o più
semplicemente una resistenza al male che accade attorno a lui che ognuno di noi
vorrebbe avere, una parte di noi, di tutti noi, sta provando su di sé, di
fronte allo schermo, quella stessa empatia istintiva, semplice, priva di
sovrastrutture che i primi spettatori provavano durante le primitive proiezioni
cinematografiche. Riconoscere ciò significa anche rileggere anche sotto una
nuova luce alcune delle scelte narrative o simboliche che abbiamo incontrato
qualche paragrafo fa. Oltre che con questi aspetti positivi della
caratterizzazione di Frank, il rapporto empatico che il pubblico instaura con
lui fa entrare in contatto gli spettatori con tutto ciò che di negativo
nasconde la sua personalità, un’occorrenza, una possibilità che se non può
essere disinnescata deve essere quantomeno contenuta. Ecco dunque che scelte
stilistiche quali l’arco del personaggio che cede in alcuni tratti o il suo
essere eroe a volte troppo freddo anche per il sistema verso cui si contrappone,
sono sì dettagli che servono ad approfondire la caratterizzazione di Castle ma
funzionano anche come puntelli utili a distaccare (“epicamente” direbbe Brecht)
il Punitore e tutto il sistema di valori che esso trasporta con sé da noi che
lo guardiamo. La domanda ora è: questo distacco ha effettivamente funzionato o
non ha fatto altro che ottenere l’effetto inverso?
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