Giovanni e Maria si lasciano
seduti al bar di Roma che li ha visti nascere come coppia ed è stato testimone
silenzioso del loro amore. La separazione è tuttavia tutt’altro che traumatica
per entrambi. Maria cerca di stroncare il dramma sul nascere, confessando la
sua disaffezione per Giovanni in pochi secondi e poi lasciandolo da solo al bar
(“perché non ti posso vedere così” dice) mentre il ragazzo non esita neanche
per un istante ad ammettere che senza di lei lui non sa che fare.
È chiaro fin quasi da subito,
tuttavia, che Giovanni è troppo orgoglioso per tornare sui suoi passi, per
riprovare a convincere Maria a tornare insieme, a riprovarci. Forse davvero per
orgoglio, più probabilmente per la paura estrema di incontrare nuovamente la
ragazza per strada, nella sua vita quotidiana, quando ancora la ferita della
separazione non si è ricucita, Giovanni decide di evitare sistematicamente i
luoghi che egli sa per certo frequentati da Maria, arrivando a costruire
un’ideale rete di trincee, di camminamenti sicuri che possano garantirgli un
passaggio sicuro a Roma durante tutto il periodo di recupero dal trauma,
periodo che Giovanni, nello specifico, trascorre dividendosi tra i matinee al
cinema e le passeggiate in macchina in una Roma notturna. Giovanni finisce per
rifugiarsi in uno spazio mentale che lui considera sicuro, nel tentativo di
evitare di andare avanti, inaspettatamente, tuttavia, nel momento in cui sarà
costretto a lasciarsi il passato alle spalle le conseguenze saranno impreviste.
Nella sua opera seconda, La Trincea, di fatto la prima che
chiaramente si pone all’interno delle coordinate di un genere, a differenza
dell’esordio Amore Bambino, prodotto
più riflessivo, libero, concettuale, Giulio Donato di fatto gioca con le
fondamenta della commedia sentimentale, divertendosi a ribaltarne gli stilemi e
a verificare il modo in cui il suo progetto entra in contatto con le
aspettative del pubblico.
Ed in effetti ciò che colpisce de
La Trincea è il modo in cui, di
fatto, destruttura e riscriva il genere in cui finisce per inserirsi. Ci
troviamo di fronte ad un film che parla di una crisi sentimentale ma che sposta
il puro evento fattuale sempre un po’più in là, preferendo concentrarsi sui
moti interiori del protagonista, impegnato nell’elaborazione di quella che,
almeno dalla sua percezione, appare come la prima grande tragedia della sua
vita. E allora ecco che il film evita di mostrare eventuali litigi tra i due
innamorati e preferisce sorvolare su possibili momenti di drammatica crisi di
Giovanni, il cui dramma è tutto interiore e che, al massimo, attraverso una
sensibilità straordinaria, può essere rappresentato tramite un processo quasi
metaforico che porta la realtà rappresentata e filtrata dalla macchina da presa
a caratterizzarsi dei tratti tipici di un animo colto da moti profondi e dalla
volontà di metabolizzare quanto accaduto. Gli spazi in cui si muove il
protagonista sono spesso vuoti o comunque poco popolati, a tratti si riesce a
percepirne la calma quasi ribollente, come se tutto attorno a Giovanni sarebbe
pronto ad esplodere da un momento all’altro, in altri casi lo sguardo della
regia preferisce soffermarsi nella calma e nel silenzio quasi rassicurante della
notte romana o nella bellezza del centro della città. Dopo poco dal suo inizio,
appare chiaro che l’atteggiamento che sembra dominare la diegesi è quello di un
sano distacco ironico nei confronti della vicenda narrata, che non si traduce
mai, tuttavia, nella mancanza di rispetto o nel tentativo di mettere in
ridicolo il dramma del protagonista, piuttosto, si tenta di ridurlo ad una misura accettabile,
ponendone in luce la sua “normalità” e l’elemento relativistico, nel tentativo
di attivare, seppur in maniera indiretta, quella maturazione interiore di
Giovanni che, di fatto, avverrà solo nel finale del corto.
Allo stesso approccio
delicatamente ironico della narrazione e delle argomentazioni pare fare un
fortissimo sostegno la profonda cinefilia attorno a cui si innerva La Trincea. Lo abbiamo già detto in
precedenza, lo precisiamo qui, il cortometraggio non è solo una sintesi
tematica e formale di sessant’anni di commedie romantiche ma è un progetto che
prova a interagire con il cinema che è stato anche sul piano stilistico. La Trincea si caratterizza infatti per
il ricchissimo citazionismo che parte dalle locandine appese nella stanza del
protagonista, passando per i film che Giovanni va a vedere ai matinee,
arrivando fino a organizzare svolte della narrazione o nuclei narrativi citando
apertamente le opere dei maestri del passato come Truffaut o Fellini ma anche
(soprattutto sul piano stilistico e, in questo caso, con particolare attenzione
al genere) Wes Anderson, Jean Pierre Jeunet e Marc Webb, da cui la regia mutua soprattutto
la scelta di certe inquadrature, l’utilizzo di alcune tecniche narrative (come
il narratore interno), la pura presentazione dei personaggi. L’elemento più
interessante e rinfrancante in questo senso è proprio, in un momento in cui
essa è ridotta a vuoto strumento utile ad arricchire una conversazione, la
profondità della cinefilia attorno a cui si organizza il film, i cui prelievi
non sono mai fini a sé stessi ma anzi collaborano, seppur silenziosamente, al
discorso generale (sia quello più prettamente ideologico che quello più legato
alla metatestualità) del film.
La Trincea è dunque un progetto di rara intelligenza, attuale,
contemporaneo, straordinariamente elegante e delicato, che ha proprio nella
classe e nella consapevolezza con cui si rapporta ai suoi protagonisti, alla
loro storia e a un intero genere cinematografico la sua forza più grande.
Alessio Baronci
Alessio Baronci
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