Il Frankenstein di Mary Shelley rivisto attraverso lo sguardo di Nick
Dear e (soprattutto) di Danny Boyle andato in scena nel corso del 2011 nella
cornice del National Theatre a Londra
costituisce, a posteriori, un vero e proprio unicum se lo si posiziona
all’interno di quel dibattito, nato ormai agli inizi degli anni ’00 e ora
giunto nel vivo tra media convergenti, autorialità, posizioni da tenere e
mantenere e territorialità da difendere.
Ci si è chiesti, in sostanza e
negli anni, quanto sia giusto che i media si ibridino, che la regia di uno
spettacolo teatrale mutui il suo approccio e i suoi elementi visivi dal cinema,
quanto sia lecito che un allestimento di una qualsiasi opera lirica prenda in
prestito elementi da dimensioni artistiche differenti come la video arte o la
performance art, quanto possa essere corretto che un regista cinematografico
invada, di fatto, il terreno della pura liveness
(il teatro di prosa, l’opera lirica) per informare, attraverso il suo
stile, la sua ideologia, l’allestimento di turno.
Proprio il contatto tra la
dimensione cinematografica e quella puramente teatrale è quello che offre i più
interessanti spunti di riflessione.
Nel momento in cui l’allestimento
viene affidato ad un regista legato a doppio filo alla dimensione
cinematografica la struttura di significato che dovrebbe al contempo sostenere
la sua regia e sviluppare una precisa lettura autoriale che punti a far
dialogare tra loro gli elementi del romanzo, del libretto, della fonte di
partenza, si nota, in effetti, nella maggior parte dei casi, una sorta di Urlo Linguistico.
È un po’ come se il regista,
nato, nutrito e proveniente dal cinema, percepisse improvvisamente uno
straordinario senso di insicurezza nei confronti del suo essere artista e,
soprattutto, nella sua padronanza del mezzo e del linguaggio peculiare del
medium con cui si sta confrontando (in questo caso, il teatro musicale o di
prosa). Il regista cinematografico tende dunque a correre ai ripari e a
rifugiarsi nella sua dimensione personale, nel suo stile, nel suo approccio
all’arte.
Ciò che ne consegue, spesso, è
una regia che, al di là della sua qualità estetica oggettiva, finisce,
letteralmente, per urlare, per rendere palese ad ogni svolta la presenza
autoriale del regista che la sostiene, una personalità che finisce per
strutturare il suo approccio all’allestimento puntellando il tutto sugli
stilemi tipici del suo cinema (pensiamo alla recente regia del Benvenuto Cellini di Terry Gilliam o
alle regie di Wagner allestite da Werner Herzog).
Si ha la sensazione, dunque, che
nel momento in cui il libretto di un’opera lirica o il testo di partenza di uno
spettacolo teatrale finisce mediato dallo sguardo di un regista cinematografico
il materiale finisca per creare una dimensione sicura e rassicurante, priva di
particolari tensioni, in cui tutti i segni diventano straordinariamente
leggibili, in cui i simboli e le tematiche della fonte di partenza finiscono
per dialogare alla perfezione con la poetica del regista (a volte, non sempre,
anche con un aiutino più o meno grande che fa in modo che uno spunto iniziale
della fonte viene inserito quasi a forza, di fatto deviato, nell’ideologia
dell’autore incaricato dell’allestimento).
Non c’è tensione, nella maggior
parte dei casi, nel tessuto vivo di queste regie, ci sono, piuttosto, una
chiarezza interpretativa e una completa aderenza con l’orizzonte di attesa
degli spettatori.
Il teatro di prosa e l’opera
lirica diventano dunque isole felici nel mare magnum di un’arte contemporanea
sempre più complessa e di difficile approccio per il pubblico medio: chi guarda
sa esattamente cosa aspettarsi, chi dirige plasma il materiale di partenza fino
a fargli assumere i tratti di una gigantesca comfort zone in cui è al sicuro e
può esprimersi (a suo dire) al meglio delle sue potenzialità e, di fatto, senza
scontentare nessuno.
Per questo, con buona
probabilità, la regia di Danny Boyle del Frankenstein
di Mary Shelley colpisce in maniera così profonda, perché il regista
inglese sembra non volersi piegare a questa sorta di tirannia linguistica a
doppio taglio, pare non voler accettare la strada più facile.
Di fronte a Danny Boyle c’è una
dimensione oscura, poco conosciuta ma dannatamente eccitante, e lui sceglie di
buttarcisi a capofitto senza garanzie ma soprattutto senza preoccuparsi troppo
delle conseguenze. L’elemento più interessante, tuttavia, in questo senso, è
proprio rendersi conto del vero e proprio percorso che compie la regia di Boyle
nel momento in cui si confronta con il testo di partenza e inizia ad essere
mediata dallo sguardo dell’autore, un percorso che, data la sua complessità,
non sarebbe sbagliato definire ad un tempo “evoluzione” e ad un altro vera e
propria “mutazione”.
Ci torneremo tra poco, ma forse,
potremmo far partire tutto dal riconoscere quanto l’adattamento di Nick Dear,
pur non rifiutando in toto Mary Shelley, ha il coraggio di giocare con il
materiale di partenza, di modellarlo secondo l’ideologia del drammaturgo, di
lavorare su linee tematiche solo accennate dalla Shelley, di rifiutarne altre.
Il testo, la fonte, diventa
dunque materiale vivo, privo di quella ieraticità, di quell’alone di
intoccabilità quasi divino che pare caratterizzare il punto di partenza di
progetti di questo tipo. Probabilmente è proprio questa rinnovata libertà di
approccio su cui si innerva l’adattamento che permette a Danny Boyle di gestire
tutto l’allestimento su quella che, come si vedrà, è una griglia di riferimento
a maglie molto più larghe di quanto si è abituati a vedere solitamente.
Se è vero che la messa in scena
del Frankenstein di Boyle configura
un vero e proprio percorso di ricerca ed evoluzione dello stile del regista
inglese, è anche vero che il punto di partenza di questo viaggio è costituito
da una sorta di precipitato degli elementi principali dell’approccio registico
di Boyle stesso.
Se si conosce abbastanza lo stile
dell’autore di Trainspotting non
risulta troppo complesso ricondurre quanto lo spettatore vede accadere sul
palco a quelle che sono le coordinate minime dell’approccio al medium
cinematografico di Boyle ai suoi esordi. Il Mostro di Boyle, a margine l’entità
attraverso il cui solo punto di vista e focalizzazione osserviamo la vicenda, è
una creatura che sembra avere solidissime basi in tutta quella galleria di
ultimi, di outsider, a cui Boyle ha dedicato la prima parte della sua carriera
registica.
Lo spettacolo inizia con una
sequenza che sembra infinita, poco meno di dieci minuti in cui la creatura
dapprima esce da quella sorta di utero, di camera di gestazione, che ha
contribuito al suo sviluppo fino a questo momento e subito inizia a prendere
possesso di sé e del mondo che la circonda. Viene colto da convulsioni, respira
a piene boccate, compie i primi passi con un atteggiamento sghembo e malfermo.
La creatura, già solo attraverso
il linguaggio gestuale che la caratterizza in questi primi istanti, sembra
occupare un orizzonte liminale, una zona di limbo che la fa essere ad un tempo
parte della società, ad un altro elemento estraneo ad essa. Una linea sottile
lega la creatura interpretata da Benedict Cumberbatch ai protagonisti della
prima fase della carriera artistica di Boyle, siano essi i tre coinquilini alle
prese con un cadavere e una valigia piena di soldi di cui occuparsi di Shallow Grave o la congrega di
eroinomani e sbandati di Trainspotting.
Il mostro che in questo
momento, sul palco, sta di fatto esplorando il mondo e sta prendendo confidenza
con il suo essere ha l’ingenuità e la mitezza che contraddistingue Renton, Spud
e i protagonisti dell’esordio di Boyle (e di entrambi i gruppi di personaggi sembra
possedere l’evoluzione che lo porterà ad abbracciare il suo lato oscuro a
seguito degli eventi che caratterizzeranno proprio il suo confronto con il
mondo reale), così come, nella fisicità asciutta e nella gestualità esplosiva
attorno a cui Cumberbatch sembra aver innervato la caratterizzazione del suo
mostro si ritrovano proprio gli atteggiamenti propri del gruppo di amici
dipendenti dall’eroina di Trainspotting
(a cui, a margine, sembra rimandare in maniera non troppo velata, anche la
sequenza in cui la creatura è colta da convulsioni, mai così vicina alla
rappresentazione in scena delle conseguenze sul corpo umano di un’overdose.
Si parte, dunque, dal conosciuto,
e, soprattutto, da ciò che è noto a chi guarda, ma Boyle sembra essere pronto a
sparigliare le carte non appena questi primi input hanno sedimentato a dovere
nell’inconscio dello spettatore.
Forse uno dei principali segnali
in questo senso è proprio il ruolo che il gruppo degli Underworld ricopre nell’allestimento. Gli Underworld sono uno dei relitti più importanti della prima fase di
carriera di Boyle. La colonna sonora di Trainspotting
è curata da loro e Boyle li ha riconvocati quasi vent’anni dopo per
organizzare la drammaturgia sonora del suo allestimento da Shelley.
Istintivamente si potrebbe pensare che Boyle cerchi di ricreare un contesto
famigliare, una dimensione pienamente solidale con l’orizzonte d’attesa di chi
guarda. E dopotutto i suoni acidi, aggressivi e pesantemente ritmati tipici
dello stile degli Underworld sarebbero
l’ideale per sottolineare all’interno della dimensione sonora i moti dell’animo
della creatura, se non fosse che il duo inglese ha scelto la cornice offerta da
Boyle e dal suo spettacolo per rimodellare da zero il suo stile, ancor meglio,
il suo approccio al suono.
Al di là, forse, di alcune
parentesi più sperimentali in cui si gioca con dei loop, con dei samples vocali
o con delle ritmiche di marca tipicamente industrial vicine alle atmosfere di
quella Ingoldstadt che Boyle sembra scegliere di rappresentare come una sorta
di cittadina postapocalittica in preda al fervore religioso di bande di
invasati, la drammaturgia sonora organizzata dagli Underworld si caratterizza per una rielaborazione consapevole della
tradizione musicale ottocentesca. Le atmosfere evocate dal suono sono sognanti,
delicate, le melodie si dilatano ed evocano scenari che rimano con quel sublime
legato a doppio filo con il continuo dialogo tra uomo e natura tipico di quel
romanticismo che innerva la scrittura della Shelley.
Il disegno che sostiene
l’allestimento di Danny Boyle comincia, dunque, ad acquisire chiarezza.
L’allestimento è organizzato,
chiaramente, attorno al suo percorso artistico ed è generato dal continuo
confronto con la dimensione cinematografica. La sua regia del Frankenstein è tutta strutturata attorno
ad un’ipotetica linea del tempo che parte dal passato (la creatura
caratterizzata come i suoi personaggi degli esordi, la drammaturgia sonora
affidata agli Underworld) e arriva
fino al suo presente (o meglio, al Danny Boyle del 2011), caratterizzata da
un’enfasi sempre più definita e a fuoco sulla carnalità, la fisicità, il
sangue, il sudore, la materialità del corpo umano e delle menomazioni che,
sebbene sempre presente all’interno del corpus di opere del regista inglese ha
acquisito maggiore importanza proprio a ridosso di quel 2011 che ha visto la
messa in scena del suo Frankenstein (è
in questi anni che escono infatti in sala prima Slumdog Milionaire e poi 127
Hours, pellicola che vede proprio nel taglio del braccio del protagonista
il suo apice narrativo e tematico).
Tuttavia, stanti queste premesse,
è necessario chiarire quanto, piuttosto che definire una struttura netta, la
regia/viaggio di Boyle all’interno del suo essere cineasta assomiglia molto più
ad un continuum dai confini indistinti in cui passato e presente finiscono per
dialogare costantemente tra loro e in cui gli elementi stilistici e tematici
relativi al percorso di ricerca di Boyle vengono trattati liberamente come veri
e propri materiali da costruzione pronti a configurarsi in maniere nuove e
impreviste per chi guarda. La conseguenza più diretta è che, se da un lato
Danny Boyle non nega un certo suo rapporto con quella settima arte che lo ha
formato e che in questo caso lo sta guidando nell’allestimento, dall’altro organizza
la materia in una struttura straordinariamente libera, pronta ad accogliere gli
elementi più svariati e metterli in comunicazione in maniera inedita,
presentando allo spettatore un universo di simboli inquieto e, per certi versi,
perturbante, proprio perché, se da un lato è informato su strutture che egli
già conosce, le combinazioni tra tali elementi danno origine a risultati
inaspettati e che finiscono per tradire le aspettative di chi guarda.
Boyle tuttavia, inaspettatamente,
compie un passo ulteriore. In maniera imprevista (e, soprattutto, ponendo in
prospettiva il suo lavoro su Frankenstein
con le evoluzioni successive del suo percorso di ricerca), il suo
allestimento finisce per incorporare anche elementi di uno stile registico di
là da venire.
È infatti nel suo Frankenstein che sono presenti, in nuce,
elementi che torneranno in Steve Jobs
(di fatto il suo film, ad oggi, più marcatamente teatrale), a partire dalla
centralità del protagonista, attraverso il cui punto di vista e focalizzazione
osserviamo la vicenda narrata, arrivando fino al montaggio fluido, libero, qui
sperimentato attraverso una struttura scenica costantemente in movimento e
dagli spostamenti pressoché continui degli assistenti di scena che liberano lo
spazio scenico e lo occupano con nuovi praticabili.
Per Boyle dunque la regia e il
palco configurano un ambiente straordinariamente vivo e vivace, un contesto nei
confronti del quale il regista inglese si rapporta come ad un vero e proprio
laboratorio di ricerca che si alimenta costantemente di stimoli e che da basi
conosciute permette di raggiungere nuove soluzioni visive, tematiche, narrative
o di significato.
Particolarmente interessante, in
questo senso, è proprio il modo in cui questo tessuto al contempo solido (nelle
argomentazioni e nella coerenza organizzativa) e straordinariamente fluido che
caratterizza la regia di Boyle finisce per influenzare (e in maniera forse
addirittura più evidente), la pura scrittura, la dimensione puramente tematica.
Il materiale di partenza, la fonte, come già si è accennato qualche riga fa,
subisce lo stesso procedimento di “esplosione e dissezione” che affronta la
regia.
Il romanzo di Mary Shelley si
avvicina pericolosamente all’essere mero palinsesto su cui Nick Dear inserisce
una sua personale lettura della creatura che ha dato il via al gotico inglese,
ma come nel caso dell’intreccio che lega l’anima dello spettacolo alla regia di
Boyle il nucleo centrale di significato non si perde mai. Quel che è certo,
tuttavia, è che come nella pura dimensione della messinscena si percepisce una
certa duttilità del tessuto tematico, che permette una certa libertà d’azione e
che è in grado di aprire la fonte a nuovi orizzonti di riflessione. Dear
inizia, lo si è accennato qualche riga fa, con il cambiare il punto di vista e
la focalizzazione della vicenda. Ora, il racconto si squaderna di fronte agli
occhi del Mostro e acquisisce la carnalità e la materialità dei suoi contatti e
scontri con il mondo circostante, una concretezza che, a margine, coinvolge
anche la pura dimensione narrativa, ora arricchita dalla messa in scena di
elementi, sequenze, vicende, che nel romanzo sono solo accennate o raccontate
retrospettivamente.
In maniera profondamente
coraggiosa, tuttavia, Nick Dear fa corrispondere il cambio di prospettiva sulla
vicenda ad un vero e proprio ribaltamento dei valori e delle strutture di
significato attorno a cui si articola il romanzo della Shelley. Pur mantenendo le
sue fondamenta ben salde nella poetica romantica, lo spettacolo non vuole
portare l’attenzione del pubblico, ad esempio, sui risvolti negativi generati
da una manipolazione insensata della natura, dal tentativo impulsivo di voler
diventare un Dio dotato del potere di vita o di morte, né desidera soffermarsi
su un Victor Frankenstein che, nel corso di tutta la vicenda, viene
perseguitato e punito per quello che a tutti gli effetti è un atto di Iubris.
Prevedibilmente Nick Dear punta
ad attualizzare il più possibile la vicenda, che per questo diventa un agile
racconto morale in cui risaltano da un lato un Victor Frankenstein colpevole di
aver abbandonato, perché spaventato, la sua creatura e dunque macchiato da un
crimine molto più concreto, tangibile di qualsiasi disputa metafisica. Al
contempo, attraverso la lettura di Dear la Creatura acquisisce una profondità
inedita nel momento in cui si lascia interagire la sua interiorità con nuovi
spunti di riflessione più vicini al presente.
Il mostro sembra essere un parto
ideologico del pensiero di Levi-Strauss nel momento in cui appare evidente che
la Creatura non compie il male perché è malvagia ma perché proprio il male,
l’aggressività, la negatività sono gli unici elementi, i soli sentimenti di cui
ha potuto fare esperienza durante il suo confronto con il mondo reale.
Nick Dear, tuttavia non sembra
volersi fermare qui, non sembra volersi limitare ad una semplice “sciacquatura”
del romanzo della Shelley nella dimensione contemporanea, e, un po’ come ha già
fatto Danny Boyle sebbene su un binario parallelo, tratta il tessuto narrativo
come sostanza fluida da modellare a suo piacere e attraverso cui, nel suo caso,
compiere un viaggio che sintetizzi e rilegga alcuni degli spunti filosofici più
profondi a cavallo tra settecento e ottocento, approcciando in maniera per
certi versi inedita quelli già presenti nel romanzo di partenza ma anche
provando a creare connessioni nuove tra la vicenda del mostro e il sostrato
culturale che, di fatto, l’ha generato.
Da una certo punto di vista, ad
esempio, la Creatura di Dear e Boyle appare estremamente simile ad un Buon
Selvaggio di impianto Rosseausniano, un individuo naturalmente puro, genuino,
buono, che finirà, con il tempo, per corrompersi a contatto con il mondo degli
uomini. Abbastanza rivelatorio in questo senso, tra l’altro, risulta essere il
modo in cui è caratterizzato il primo paesotto con cui la creatura si ritrova
suo malgrado a interagire, una sorta di Gomorra steampunk patria del vizio, del
malaffare, di tutto ciò che di contrario alla morale comune possa esistere, uno
spazio, un contesto, verso il quale la Creatura reagisce con un atteggiamento a
metà tra la purezza di un’entità non toccata dal lato oscuro del mondo e il
fare quasi messianico di un individuo arrivato a mostrare straordinarie
rivelazioni al popolo e per questo rifiutato, osteggiato.
Ancor più interessante in questo
senso, tuttavia, è notare quanto questo contatto con il pensiero
sette-ottocentesco finisca per comunicare (e influenzare) la messa in scena. Il
Frankenstein di Boyle è, ad esempio,
uno degli allestimenti che in maniera più efficace ha saputo rappresentare
nella concretezza della Liveness e in tutta la sua pregnanza qualcosa di
estremamente immateriale come il continuo dialogo tra uomo e natura
costantemente ricercato dall’arte durante il romanticismo (pensiamo ai tempi,
al ritmo lento, al crescendo affascinante e inesorabile, alla sinergia tra
suono, movimento dell’attore in scena ed elemento scenografico che caratterizza
la scoperta dell’alba da parte della creatura). Al contempo, tuttavia, non si
può non notare quanto proprio la regia di Boyle si innesti, nella dimensione
ideologica, all’interno di quel pensiero sensista che è stato uno dei cardini
dell’ideologia a cavallo tra settecento e ottocento. Se è vero che secondo
l’idealismo di Locke l’unico modo in cui per l’uomo è possibile fare esperienza
della realtà è attraverso i suoi sensi è impossibile non avvicinare a questo
spunto filosofico gran parte delle soluzioni sceniche attuate da Danny Boyle
durante l’allestimento. La scenografia è infatti, nella maggior parte dei casi,
disadorna e lo spazio sul palco è vuoto per la maggior parte del tempo. I vari
props, i vari elementi che compongono la dimensione spaziale in cui si svolge
l’azione si prendono piede lentamente nel corso di ogni scena, soprattutto
attraverso l’uso di piattaforme mobili, in maniera consonante con il movimento
e le azioni degli attori. La sensazione è che si punti a ricreare nello spazio
scenico le basi dell’idealismo, attraverso la sintesi di una dimensione
d’azione che, di fatto, esiste solo nel momento in cui i vari personaggi in
gioco ne percepiscono i confini e gli elementi essenziali e che smette di
esistere nel momento in cui le parti in gioco se ne allontanano o,
semplicemente, smettono di farne esperienza. Un set (si perdonerà, a questo
punto, il parallelo con la dimensione cinematografica), che dunque è un
continuo divenire di ambienti, elementi costruttivi, spazi di interazione e
che, in piccolo, sembra voler richiamare quell’idea di flusso costante di
flussi e informazioni che è l’anima dell’allestimento di Boyle/Dear
Di fronte a noi si presenta
dunque un progetto straordinariamente ricco, denso e poliedrico, che merita la
nostra attenzione (e la vostra, di spettatori), proprio perché è un unicum all’interno
di produzioni simili, frutto delle interazioni proficue tra due entità
autoriali che, semplicemente, pur non tradendo la loro profondità artistica, la
loro formazione, la tradizione, hanno scelto la strada meno battuta, hanno
aperto un sistema apparentemente chiuso, l’hanno irrorato di nuova linfa e
hanno giocato con le aspettative del pubblico con intelligenza e originalità.
Alessio Baronci
Riproduzione Riservata
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