Questo pezzo nasce da una vera e propria necessità, meglio ancora, dalla volontà di riempire un vuoto di significato. Dal momento della sua uscita su Netflix, il 28 Dicembre, Bandersnatch, il film interattivo-ma-non-troppo facente parte dell’universo narrativo di Black Mirror e partorito dalla mente di Charlie Brooker, internet è stato letteralmente invaso da analisi, commenti, recensioni, articoli che hanno avuto la pretesa di sezionare l’ultima creatura di Brooker in ogni sua parte rilevante.
Peccato che gli intenti, certo
nobili, non abbiano, di fatto, rispettato le attese.
Perché, a ben guardare, ogni
singola analisi finora partorita di Bandersnatch
finisce irrimediabilmente per rinchiudersi su sé stessa e per compiere lo
stesso discorso già affrontato in precedenza dagli altri scritti dedicati al
progetto.
Emerge l’idea di un Bandersnatch dalla lettura per certi
versi evidente ed inequivocabile e, a ben guardare, è effettivamente così: il
tessuto di Bandersnatch si regge su
un’unica rete tematica, nella migliore tradizione, in fondo, dei racconti
morali medievali a cui, seppur alla lontana, Black Mirror finisce per rifarsi, una rete che sviluppa un’unica
tesi: una tesi che rima con la critica al consumismo, alla falsa libertà di
scelta, al nostro vivere immersi in una realtà che illusoriamente ci pone di
fronte a infinite paradossali, alcuni hanno addirittura letto l’episodio come
un paradossale accusa a quella Netflix e a quel suo algoritmo di selezione che
in fondo è la ragione profonda per cui Bandersnatch
esiste in quanto progetto. Sembra un episodio da teatro dell’assurdo, è
vero, ma ecco che anche all’interno della dimensione interpretativa la creatura
di Charlie Brooker fa percepire la sua influenza di meccanismo chiuso che, in
maniera quasi silente, guida le interpretazioni, le letture di studiosi e
spettatori verso confini noti e conchiusi, assurdamente ma al contempo
prevedibilmente, ripetitivi.
Forse, la strategia più
intelligente da attuare in questo senso, nel tentativo di rendere nuovamente Bandersnatch terreno fertile per
riflessioni davvero costruttive, consiste proprio nell’uscire dai confini
stessi imposti dal progetto, nel negare, almeno apparentemente, quelle
imposizioni a cui si è sottoposti nel momento in cui si sceglie di riflettere
su di esso.
Si potrebbe decidere di lavorare,
in effetti, sul puro tessuto stilistico e sull’orizzonte culturale da cui
finisce per essere nutrito proprio Bandersnatch,
nel tentativo di capire in che modo esso finisce per comunicare con il prodotto
finito. Proprio se stimolati da questo percorso di ricerca, tuttavia diventa
necessario fare chiarezza su una fondamentale questione di approccio. Partendo
dal presupposto che prodotti di questo tipo (a maggior ragione nel momento in
cui questi stessi prodotti non fanno mistero, quasi amplificandola, della loro
condizione di entità pienamente inserite nel contesto postmoderno) finiscono
per innervarsi in maniera più o meno evidente attorno all’azione del prelievo
da altri contesti creativi e artistici, ma anche, molto più semplicemente, da
tutto ciò che si muove sulla loro lunghezza d’onda, da tutto ciò che è
proveniente dal loro stesso orizzonte tematico, insomma, in breve, da tutto ciò
che li ha preceduti, bisogna tuttavia compiere un necessario distinguo tra la
pura citazione e la vera e propria “influenza” che determinati elementi della
più varia natura esercitano su un determinato progetto.
La distinzione tra queste due
entità apparentemente così simili ma al contempo poste agli antipodi del nostro
orizzonte di riferimento si gioca tutta sulla carica di significato e di senso
di cui sono dotati quei prelievi che esercitano una vera e propria influenza
sul prodotto finale e che irrimediabilmente manca all’elemento citazionista. La
scritta “MTL HD”, che campeggia su uno dei muri della Tuckersoft e che rimanda
a quel Metalhead, episodio della
quarta stagione di Black Mirror
diretto da David Slade che qui torna dietro la macchina da presa, ma anche Noizedive, il titolo del videogioco
8-bit sviluppato dalla software house e che cita il quasi omonimo episodio
della terza stagione, ma anche, in maniera più o meno indiretta, il poster di
Akira che si intravede nell’appartamento di Colin Ritman, sono citazioni, vuote
strizzatine d’occhio che sfidano chi guarda a lasciarsi scoprire e che lasciano
dietro di sé la sensazione, certamente appagante ma al contempo effimera, di aver
percepito una sorta di vibrazione che riconnette lo spettatore ad un ricordo,
ad un’esperienza piacevole o, più semplicemente, ad una sorta di eco
proveniente da un mondo narrativo più vasto. La citazione non è uno strumento
dialogico, non organizza una comunicazione tra un sostrato di segni e di
riferimenti culturali e quel prodotto finito, quel film, quel disco, quella
serie, che finirà per organizzarsi tematicamente e visivamente proprio a
partire da quel sostrato e da questa struttura dialogica come invece accade con
gli elementi legati alla sfera della cosiddetta influenza culturale.
In questa sede indagheremo proprio
i limiti, i confini e le strutture del sostrato che sottende a Bandersnatch, i suoi caratteri, la sua
natura profonda, il suo orizzonte tematico di riferimento, nel tentativo di
capire il ruolo che proprio le influenze culturali hanno giocato nella progettazione
di questo particolare esperimento televisivo.
In particolare, il nostro
percorso procederà su tre direttrici di analisi principali, quella legata al
visivo, quella legata al suono e alla musica presente nell’episodio e quella
legata ai puri riferimenti del racconto, alla struttura dello storytelling.
Partiamo considerando proprio la
struttura narrativa, le parti tirate in causa dall’intreccio, il dipanarsi del
racconto. Basta poco, in effetti, per comprendere quanto i due personaggi
complementari al centro della storia, il giovane Stefan e Jerome F. Davies
siano di fatto costruiti prelevando da una zona grigia in piena intersezione
tra la vita e le opere di David Foster Wallace e Philip K. Dick (e, a margine,
è altrettanto facile notare quanto proprio il nome del guru/programmatore
folle, convitato di pietra di Bandersnatch,
sia di fatto un gioco di parole tra i nomi di questi due autori del ‘900). In
un percorso di scrittura e caratterizzazione via via più dettagliato, dapprima
Brooker caratterizza i suoi due personaggi come due creativi borderline,
affetti da manie psicotiche e da crisi depressive che probabilmente sono alla
base della maggior parte dei loro gesti più estremi, ponendoli dunque, anche
solo simbolicamente, sulla stessa linea di Philip Dick e Foster Wallace; man
mano che la narrazione procede, tuttavia, la scrittura sembra voglia perdere
gradualmente questa sorta di distanza critica che punta a separare le
personalità reali da cui si attinge per la caratterizzazione dei personaggi in
gioco dai personaggi stessi fino a raggiungere un’assimilazione completa con le
entità reali fino ad un momento prima evocate dal contesto della narrazione,
un’assimilazione che si sviluppa attraverso il materiale creativo prodotto
negli anni proprio da Dick e Foster Wallace.
Stefan e Jerome F. Davies diventano,
con il tempo e lo svilupparsi della narrazione, entità limbiche, poste a
cavallo tra due dimensioni distinte e in perenne contatto tra loro.
Da un lato essi sono personaggi
originali, di per sé unici immersi tuttavia in un contesto narrativo
volutamente posticcio, che non nasconde affatto gli evidenti prelievi dagli
universi letterari dei due autori sopracitati. Bandersnatch potrebbe benissimo funzionare come uno studio sugli
universi paralleli non troppo dissimile da quelli già effettuati da Dick con La Svastica Sul Sole e Scorrete Lacrime, Disse Il Poliziotto;
la psicosi delirante di Stefan, le sue manie di persecuzione, lo avvicinano,
letterariamente, al protagonista di A
Scanner Darkly; al contempo, senza andare troppo in là con l’immaginazione
e i riferimenti, tutto il sistema che regge Bandersnatch
è in fondo una versione aggiornata e cambiata di segno di Ubik: un personaggio è prigioniero di
una realtà di cui sta perdendo lentamente i riferimenti primari, un
contesto che sta lentamente mutando,
cedendo e da cui, tuttavia, a differenza del romanzo Dickiano manca quell’Ubik,
quel Deus-Ex Machina che costituisce anche la salvezza per il protagonista. Qui
Ubik siamo noi, ormai relegati a falsi burattinai che controlliamo o crediamo
di controllare Stefan senza però essere in grado di offrirgli soluzioni
veramente efficaci alla crisi che lo caratterizza.
Rileggendo tutto il progetto di
Brooker attraverso la “lente” di David Foster Wallace quest’assimilazione fin
qui evocata diventa, se possibile ancora più evidente: Bandersnatch e la sua struttura densa e stratificata lo accomunano
senza sforzo a quell’Infinite Jest che
è il capolavoro letterario di David Foster Wallace ma spingendosi ancora più in
là, ecco che proprio il libro di Davies (e il videogioco a cui sta lavorando
Stefan) diventano (pur rimanendo sul piano finzionale) la concretizzazione di
quel Samizat, di quel film, di quel
prodotto d’intrattenimento che è al centro del romanzo di Wallace e che si dice
sia talmente complesso e appagante da condurre alla pazzia chiunque ne
usufruisca.
Al contempo, l’altro fattore del
sistema che struttura personaggi e sistema narrativo di Bandersnatch è proprio questo rapporto con la concretezza del
reale. Lentamente, come abbiamo dopotutto già accennato, Stefan e Jerome
assimilano a tal punto i tratti di Dick e David Foster Wallace da confondersi
con i personaggi reali a cui si ispirano (ma a questo punto è chiaro che il
termine di “ispirazione” è assolutamente limitativo). Stefan e Jerome sono
dunque ad un tempo loro stessi ad un altro Dick e Foster Wallace, personaggi
filmici che, in maniera quasi autobiografica, finiscono per vivere, per
percepire su loro stessi le psicosi e i demoni che entrambi avevano provato ad
esorcizzare (seppur momentaneamente) trasponendoli su carta. Più che per il
(pur sempre labile, in bilico, come abbiamo già accennato) tratto biografico che
contraddistingue la caratterizzazione di Jerome e Stefan quello che più
colpisce in questo senso è quanto, attraverso Bandersnatch, la realtà (in questo senso le vite di Dick e di
Foster Wallace) venga trattata alla stregua di un elemento finzionale a cui
attingere, di un materiale da plasmare senza farsi troppi problemi etici di
sorta.
Bandersnatch sembra voler dunque organizzare un discorso attorno al
paradigma del postmoderno che finora ha dominato il nostro orizzonte culturale.
Brooker tenta, in sostanza, un’analisi che punti a mettere in crisi il concetto
di postmoderno contemporaneo, una distruzione di un orizzonte culturale che
procede, sistematicamente, portando alla luce i tre capisaldi di quella che,
alla fine di tutto il percorso, potremmo chiamare come Postmodernità Debole, ossia quel postmoderno nato dalla sua stessa
messa in crisi, tre fondamenta legate ai tre vettori di ricerca che dipartono
da Bandersnatch stesso. Il tessuto
narrativo è il luogo in cui il postmoderno finisce per sclerotizzarsi, in cui
non esiste più gerarchia tra i prelievi e in cui anche la vita reale assume lo
statuto di finzione diventando “falsa” abbastanza da funzionare come struttura
costruttiva.
Il discorso si approfondisce
ulteriormente se riflettiamo sull’impianto visivo e stilistico di Bandersnatch, su ciò che, in buona
sostanza, lo spettatore vede durante l’episodio. Anche qui, paradossalmente,
l’impianto visivo che regge il lavoro di Brooker è straordinariamente semplice
da individuare nella sua evidenza.
Il primo film interattivo di Black Mirror è in effetti il luogo
artistico in cui vengono raccolti e coagulati spunti visivi (che portano con sé
addirittura elementi legati allo storytelling, come vedremo) provenienti da
vent’anni di cinema fanta-thriller cospirazionista. In particolare, nella
costruzione di Bandersnatch, Brooker
sembra essere legatissimo a due capisaldi del genere: Matrix e Donnie Darko.
Tutto lo sviluppo (e anche alcuni elementi legati al sistema delle
inquadrature) del colloquio rivelatorio tra Stefan e Colin, quello in cui il
giovane protagonista prende coscienza di quegli universi paralleli, di quelle
infinite possibilità che lo condurranno alla morte è letteralmente modellato su
una chiacchierata cinematografica non meno importante, quella tra Neo e
Morpheus in Matrix e dal film dei
Wachowski sembra si voglia prelevare prevedibilmente tutto l’impianto
cospirazionista e psicotico della realtà ulteriore, REALE, aperta a pochi
eletti e nascosta al pubblico dominio da qualche misteriosa elite.
È tuttavia proprio dal cult di
Richard Kelly che Brooker effettua l’azione di prelievo forse più ambiziosa. Donnie Darko viene di fatto saccheggiato
apparentemente senza soluzione di continuità, in Bandersnatch tornano alcune sue idee visive, gran parte degli schemi
delle inquadrature, addirittura moltissimi spunti narrativi (dagli universi
paralleli aperti a migliaia di possibilità diverse al protagonista che deve
tornare indietro nel tempo per salvare la sua famiglia, passando per il ruolo
fondamentale ricoperto dalla figura del coniglio), tanto che Bandersnatch essere considerato a buon
diritto un’eco evidente del film di Kelly.
Brooker non si ferma però qui e arriva a consigliare al regista David Slade di
ricostruire intere sequenze di Donnie
Darko in Bandersnatch in una
distorta azione di re-enacting. Particolarmente interessante, in questo senso,
è proprio analizzare il percorso compiuto da un prelievo come l’immagine del
protagonista impegnato ad interagire con una superficie specchiata, presente in
Matrix, prelevato da Kelly per Donnie
Darko e riemerso in uno dei momenti centrali di Bandersnatch. Come abbiamo
già intuito, subodorato, riflettendo sul “mondo narrativo”, portando la nostra
attenzione sul puro filmico della creatura di Charlie Brooker la natura
profonda di Bandersnatch viene alla
luce. Bandersnatch è letteralmente
costruito quasi solo attorno al prelievo, un’azione evidente, pervasiva, che
non è quasi mai mediata dall’istanza autoriale (Brooker non se ne preoccupa, la
sua attenzione è totalmente presa, piuttosto, dalle argomentazioni sottese a Bandersnatch, alla sua struttura
tematica) e che finisce per sommergere il tessuto narrativo, per farlo affogare
di rimandi, prelievi da questo o quell’immaginario, da questa o quell’opera
filmica o letteraria, per non farlo più respirare. Il centro nevralgico del
postmoderno in arte, il prelievo, riceve un altro colpo. Il meccanismo non solo
viene portato alla luce ma ne viene mostrata l’evidente sclerotizzazione, la
sua perdita di controllo.
È l’effettiva morte di una
tecnica artistica.
Ancora di più sul lavoro svolto
da Charlie Brooker attorno al Postmoderno con Bandersnatch può dircelo proprio il comparto sonoro e musicale
attorno a cui si struttura il progetto. Bandersnatch
è ambientato nel 1984, musicalmente ci troviamo in un momento di
transizione in cui il pop zuccheroso dell’inizio del decennio stava acquisendo
via via in complessità e sfumature che lo stavano portando ad ibridarsi con la
New Wave, con ciò che rimaneva del punk anni ’70 per diventare lo strumento con
cui poteva diventare possibile approcciare criticamente, in musica, i
chiaroscuri di anni solo apparentemente ottimisti, in realtà dominati da disagio,
alienazione, vuotezza, consumismo.
Paradossalmente, tuttavia (vuoi
anche perché, con buona probabilità, la storia di Stefan sarebbe stata perfetta
per far sì che fosse proprio la new wave a tematizzare sul piano sonoro i
risvolti psicotici dei suoi comportamenti), Brooker sceglie (consapevolmente,
come si vedrà poi), per tirare i remi in barca in quanto a ricerca sonora,
scegliendo di non organizzare nessun “discorso ulteriore”, che potesse in
qualche modo rinforzare, ampliare o (perché no?) anche contraddire ciò che
accade sullo schermo attorno al suono, optando piuttosto per una drammaturgia
musicale volutamente semplice e (dettaglio fondamentale), quasi didascalica.
La sveglia di Stefan suona ogni
volta Relax dei Frankie Goes To Hollywood, quasi a sottolineare ironicamente
l’instabile situazione emotiva e psichica che vive il protagonista; una delle
due opzioni che lo spettatore può scegliere e che riguardano i brani che Stefan
può ascoltare mentre sul bus viaggia verso la Tuckersoft è Making Plans For Nigel degli XTC, brano tutto giocato sul contrasto
genitori/figli che quasi riverbera le tensioni del primo colloquio tra Stefan e
suo padre (svoltosi poco prima del viaggio del protagonista); e ancora, ecco
che la sequenza psichedelica in cui Stefan scopre il meccanismo di
funzionamento dei mondi paralleli è sottolineata da un brano dei Tangerine
Dream. Si tratta di Krautrock, di Cosmische
Musich ma costituisce anche l’occorrenza più evidente, la soluzione più
semplice, nel momento in cui devi trovare un brano che possa sottolineare
musicalmente la perdita di controllo, l’ingresso in un mondo altro, da parte di
uno dei protagonisti della tua storia.
E allora ecco che, se dovessimo
cercare due aggettivi che definiscano brevemente i tratti della drammaturgia
sonora di Bandersnatch potremmo dire
che il lavoro sul suono definisce un contesto che da un lato è consonante con
il racconto (lo segue in parallelo e traduce in musica gli spunti del racconto
così come sono, senza organizzare alcun discorso su di esso), dall’altro è
squisitamente semplice, pop, quasi banale, artefatto, perché da un lato (come
nel caso dei Tangerine Dream) sembra
voglia puntare a creare la sottolineatura musicale ideale, più diretta, per
definire alcuni snodi narrativi, dall’altro pare voglia attingere a piene mani
a quel suono di cassetta, nazional popolare, che è entrato nell’inconscio
collettivo di molti che negli anni ’80 erano ragazzini e che oggi sono alcuni
degli spettatori di Bandersnatch
(nella sua soundtrack si possono ascoltare gli Eurythmics, i Thompson Twins
e, in chiusura, Laurie Anderson).
Consonanza e banalità sono dunque
i tratti attraverso cui, riflettendo sulla drammaturgia musicale, Brooker
finisce per completare la sua definizione di questa sua personale
destrutturazione del Postmoderno che sembra essere uno degli strati attraverso
cui leggere Bandersnatch. I brani
musicali sono, in effetti, dei veri e propri prelievi da un immaginario,
funzionano allo stesso modo di immagini, approcci stilistici, elementi del
racconto che possono contribuire a costruire un prodotto nuovo, originale. E
allora ecco che attraverso il suono Brooker sottolinea gli elementi dialogici
del postmoderno, la sua capacità (o meglio, incapacità), di creare discorsi
nuovi (la drammaturgia sonora segue e sottolinea pedissequamente il racconto) e
di operare in un campo che sia davvero originale (e il ricorso al “repertorio
classico” anni ’80 a cui si è accennato dice molto in questo senso).
Con Bandersnatch Charlie Brooker prova dunque a distruggere il
paradigma della Postmodernità. Lo attraversa e lo fa a pezzi, lasciando dietro
di sé un panorama di rovine. Non sembra offrire, almeno apparentemente, un
nuovo modo di intendere quest’orizzonte culturale che possa essere in grado di
confrontarsi attivamente con il contesto sociale in cui opera, sembra voler,
piuttosto, mostrare la vera natura della postmodernità, un paradigma, di fatto,
molto più debole e caotico di quanto si sia voluto credere. Starà ad altri, forse,
organizzare altri discorsi che provino a raccogliere i pezzi della distruzione
operata da Brooker, quel che è certo, è che egli non si tira indietro, prima
che nel porre tra parentesi e mostrare i limiti di un sistema di regole, nel
momento in cui organizza un parallelo tra la postmodernità e il suo rapporto
con l’artista, il creativo e il modo in cui Bandersnatch
interagisce con Stefan e con noi.
Se è vero infatti che il mondo
interno (le azioni compiute e gli avvenimenti vissuti da Stefan) ed esterno (la
nostra esperienza con il progetto) a Bandersnatch
configurano un rapporto di prigionia vero e proprio, in cui tutte le parti in
gioco credono di essere libere ma in realtà non sono altro che entità
manipolate da qualche Grande Altro che tiene le fila della sua esperienza è
altrettanto vero che questa “libera prigionia” si ripercuote anche nel processo
creativo proprio attraverso il rapporto che l’artista intrattiene con il
postmoderno. Brooker sembra vivere la postmodernità come una prigione, una struttura,
una griglia di riferimento creativo asfissiante che tende a soffocare la
dimensione narrativa ma che, soprattutto, tende a imporre dei percorsi fissi da
seguire a chi vuole utilizzarla per dare vita alle proprie creature. E dunque è
un po’ come se il surplus di prelievi presenti in Bandersnatch fosse la risposta a una domanda malcelata di Brooker
che cercava semplicemente di creare il prodotto d’intrattenimento postmoderno
definitivo, una domanda a cui proprio la postmodernità ha risposto portandolo a
strutturare tutto il suo progetto attorno a tutto ciò che non può non
funzionare in un thriller cospirazionista figlio del suo tempo.
Detto in termini semplici, non si
può fare un film cospirazionista senza partire da Matrix e Donnie Darko,
non si può parlare di scrittori paranoici e di artisti maledetti senza prendere
spunto (neanche troppo velatamente) da Dick e David Foster Wallace, non si può
ambientare una storia negli anni ’80 senza infilare nella soundtrack un pezzo
dei Frankie Goes To Hollywood.
Il tuo prodotto, alla fine,
funzionerà per forza, peccato che proprio la postmodernità lo abbia
condannato alla banalità e alla vuotezza o che, nel profondo, quello stesso
paradigma costruttivo che hai utilizzato abbia mostrato tutti i suoi limiti, e,
soprattutto, abbia ridotto la tua autorialità quasi allo zero.
Alessio Baronci
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