La verità (scomoda da accettare
per molti che leggeranno) di oggi è che esiste un’autorialità anche nel
Blockbuster. È un aspetto di cui parlai qui, soprattutto, ma da cui bisogna
ripartire per fare due chiacchiere attorno all’ultima creatura di Guy Ritchie.
Il senso di tutto è che dieci
persone possono raccontare la stessa storia in maniera diversa, compiendo delle
scelte legate al loro peculiare modo di leggere il racconto, di rapportarsi ai
personaggi, di osservare, concretamente, una scena. Essere autore significa
caratterizzarsi per delle scelte creative fisse, per dei motivi ricorrenti, essere
autore, significa, soprattutto, rendere i propri prodotti riconoscibili.
In buona sostanza, riconosci un
film di Michael Bay dai movimenti di macchina e dalle cose che esplodono, un
film di Tarantino dai dialoghi articolati e dalla cura del comparto
sceneggiatura, uno di Mann dalla riverenza, dal rispetto che egli rivolge nei
confronti dell’Immagine.
Li riconosci comunque, anche se
sono film di cassetta, anche se sono blockbusters, anche se girano più spesso
nei multisala che nei festival di rilievo. Posto ciò, il passo successivo è
comprendere che non solo è necessario costruire delle categorie nuove per
giudicare i blockbusters (ne parlavo qui) ma bisogna anche prendere atto di
come, in casi come questo, una presenza autoriale forte finisce per entrare
prepotentemente all’interno dell’azione del giudizio. In primo luogo perché,
specie quando egli ha uno stile ben formato e coerente, che torna film dopo
film, l’operato di un autore o lo si ama o lo si odia e dunque, qualsiasi
giudizio di gusto legato al lato estetico del film cade nel momento in cui noi
che il film lo guardiamo non riusciamo a sviluppare empatia con la visione
dell’uomo dietro la macchina da presa.
Il secondo elemento da tenere in
considerazione quando ci si rapporta a film di questo tipo strettamente
connesso a quanto detto finora è che il versante stilistico ha la precedenza su
tutti gli altri elementi che regolano il film. E quindi, se di fronte a noi
troviamo un film che non solo è coerente con lo stile del suo autore, in cui
ritroviamo le sue atmosfere tipiche, i suoi elementi ricorrenti, ma che si
anche pone come ulteriore passo nella maturazione artistica del regista, allora
il film partirà già con una sorta di “Bonus Qualitativo” che appianerà gli
altri (eventuali) difetti legati alla dimensione “costruttiva” del film.
Detto questo, due chiacchiere su King Arthur credo si possano fare.
Se è vero che il primo e
principale elemento per giudicare un “Blockbuster autoriale” è proprio il peso
della presenza stilistica del regista all’interno di esso, possiamo senza alcun
problema definire King Arthur come un
tassello fondamentale nella carriera di Guy Ritchie, il problema è semmai,
giunti a questo punto, capire quale sia, effettivamente, la cifra stilistica
del nostro uomo, tentando, nel frattempo, di sgombrare il campo da facili
equivoci.
Il punto è che chi dice che un
film di Guy Ritchie si riconosce dagli scenari degradati in cui si ambienta,
dai suoi personaggi rozzi e borderline, dai dialoghi vivaci e sboccati, da un
focus quasi costante su atmosfere legate agli ambienti della malavita
probabilmente vede la questione dall’angolazione sbagliata. Si confonde, in
sostanza, un’informazione accessoria con il centro del discorso, un dettaglio
(importante, certo, ma non fondamentale), con il disegno completo.
Piuttosto, forse è più giusto
dire che la cifra stilistica peculiare del cinema di Ritchie sia il suo
costante desiderio di manipolare l’asse del racconto. Attraverso un sapiente
uso del montaggio azioni che hanno luogo nel corso di anni interi si risolvono
nel giro di una manciata di minuti, punti di vista differenti su una stessa
vicenda convivono all’interno di una stessa sequenza, interi segmenti di trama
si sviluppano per mezzo di una tecnica che potremmo definire della “Matrioska
Narrativa”, attraverso la quale il racconto non rimane fermo alle parole di chi
parla ma si fa immagine e movimenta l’azione.
E allora, ecco che, seguendo
questa linea di ragionamento, King Arthur
sembra essere il film della maturità di Guy Ritchie proprio perché questa
sua cifra stilistica si esprime in tutto il suo potenziale. Pensiamo a come il
tempo del racconto, nelle prime sequenze, venga manipolato a tal punto (ed in
maniera così smaccata, con l’effetto tipico del “Fast-Forward” da
videoregistratore) che l’infanzia e la crescita di Artù si risolvono in un paio
di minuti ma pensiamo anche a come interi momenti del racconto vengano
inghiottiti da vere e proprie ellissi temporali e tornino a galla soltanto in
un secondo momento e solo prendendo forma dal semplice racconto orale di uno
dei personaggi (soggettivo, dunque relativo, dunque inficiato dalla menzogna,
obliquo, mai diretto). Al di là di questo, tuttavia, il vero fattore che fa
comprendere quanto lo stile di Ritchie abbia fatto dei passi in avanti anche
solo dai tempi (recenti) del suo Man From
U.N.C.L.E. si comprende nel momento in cui l’azione manipolatoria ha fatto
il salto e ha cominciato ad interessare non solo l’asse orizzontale (del
racconto), ma anche (e soprattutto) quello verticale, quello formato cioè dalla
dimensione “visiva” del film: i simboli, le immagini ricorrenti, gli spunti
provenienti dalla cultura visuale dello spettatore in sostanza. Vortigen e Artù
si comportano come Claudio ed Amleto, alcuni dei demoni che il protagonista si
ritrova ad affrontare sembrano essere presi di peso dalla saga di Dark Souls, ma anche tutto il training di
Artù, che termina con la piena consapevolezza del suo compito e la sua piena
maturazione sembra essere un mix tra il viaggio dell’eroe di Campbell e le
sequenze su Dagobah de Il Ritorno Dello
Jedi. E ancora, tornano in King
Arthur gli elefanti incantati già visti ne Il Ritorno Del Re ma acquistano consistenza (con un sapore quasi
autocitazionistico) delle sequenze che rimandano ai momenti allucinatori dei
due Sherlock Holmes firmati da
Ritchie stesso. La cosa più interessante da notare, tuttavia, è che, tra le
immagini, i simboli, gli elementi di cui si compone King Arthur, quelli provenienti dal vero e proprio canone arturiano
sono posti sempre, costantemente, in primo piano, fattore che rende, per quanto
paradossale possa suonare, la “versione di Ritchie”, la trasposizione su
schermo più fedele di un mito millenario se non sul versante narrativo,
certamente su quello simbolico.
E allora, forse, ecco che proprio
qui fa capolino il “paradosso dell’autore” che ha guidato finora il nostro
sguardo su King Arthur. Il punto è
che una stilizzazione così marcata può spaventare e può portare a due reazioni
differenti. La prima è la più estrema, e corrisponde a quel rifiuto che porta a
buttare via il bambino con l’acqua sporca. Si denigra quindi l’operato di
Ritchie come quello dell’ennesimo mestierante troppo sicuro di sé che confonde
le carte sulla celluloide per attrarre gli spettatori più superficiali, gli
unici a cui (a detta dei detrattori) può piacere un blockbuster del genere; l’altro
atteggiamento è forse più moderato, ma non per questo meno pericoloso, per
certi versi. È un atteggiamento che rima con l’incertezza, con il desiderio di
non impegnarsi, con la volontà di non andare al di là della superficie delle
cose, forse perché ci fa troppa paura ammantare di serietà e di sensibilità
artistica un prodotto che secondo noi non dovrebbe averne. I fautori di quest’ideologia
vedranno quindi in King Arthur un
film di immenso intrattenimento, in cui le atmosfere gangsteristiche di Snatch si mischiano a quelle dark
fantasy di Game Of Thrones, un film
che finisce per galvanizzare lo spettatore grazie a battute ad effetto e azioni
cariche di pathos. La cosa interessante è che tutto ciò, se rapportato a King Arthur, è senz’altro vero, ma non è
assolutamente tutto qui.
Ma non lo è mai, in fondo.
Chiudiamo quindi riprendendo le
fila del discorso e tentando di tracciare una conclusione.
King Arthur è il punto più alto raggiunto finora dalla
cinematografia di Guy Ritchie, un film in cui si ritrovano, potenziati, tutti gli
elementi principali della sua poetica, posti in campo (sebbene “caricati”) con
estrema parsimonia ed equilibrio, ma che si pone anche come base d’appoggio per
dettagli, materiali costruttivi narrativi e simbolici inediti, che
probabilmente non faranno altro che tornare a galla nelle pellicole successive
del regista. Un film della maturità, un punto d’arrivo ma anche di (ri)partenza
per la carriera di Guy Ritchie, un blockbuster autoriale che fa ciò che ci si
aspetta faccia un blockbuster autoriale. Long live the king!
Alessio Baronci
Alessio Baronci
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