Se si volesse tracciare il
percorso di vita del personaggio dell’anziano, forse una delle dramatis
personae più interessanti e sfaccettate della dimensione artistica, nel momento
in cui essa entra in contatto con il medium cinematografico con la narrazione
seriale televisiva, ci si troverebbe di fronte ad una linea profondamente
frastagliata.
Tutto nasce in realtà proprio
dalla natura così varia delle incarnazioni che hanno caratterizzato negli anni
proprio questo vero e proprio “motivo narrativo e tematico”. Ed in effetti, ad
esaminare le singole milestones, le
singole tappe dell’evoluzione/metamorfosi di questa figura all’interno della
Settima Arte ci si ritrova di fronte ad un repertorio di vere e proprio
immagini di complessità crescente che rischiano di prendere il sopravvento su
tutti coloro che tentano un’analisi di questo tipo.
In un primo momento il vecchio è
la scorbutica e comica macchietta supporto e spalla dei personaggi principali,
un ruolo, questo, mutuato evidentemente dalla tradizione teatrale, da cui tra
l’altro vengono anche i tratti principali che caratterizzano la psicologia di
questo personaggio, spesso legata ad un conservatorismo di ferro e a una
costante critica nei confronti delle nuove generazioni che egli quasi sceglie
di non capire, di non comprendere, tacciando i giovani di non saper stare al
mondo.
Con il tempo (e salvo eccezioni
meritevoli come quella dell’Umberto D. di
De Sica tra i tanti), la figura dell’anziano sembra cementarsi dunque attorno a
due direttive caratterizzanti principali, organizzate attorno a spunti che, di
fatto, non sono altro che approfondimenti e nuove emersioni di elementi nati
dalla scorporazione di quel modello primitivo di anziano come grottesco
difensore di vecchi valori ormai morenti.
E allora ecco che il “carattere”
finisce per sdoppiarsi, da un lato diventa comic
relief, sollievo comico e spalla dei protagonisti, costantemente animato da
un germe di leggerezza e ottimismo capace di risollevare da solo le sorti
emotive delle parti in gioco, dall’altro quel continuo e quasi maniacale
attaccamento al passato diventa saggezza e dunque ecco che l’anziano diventa il
mentore del protagonista, pronto a trasmettere le sue conoscenze alle giovani
generazioni spesso nel tentativo di addestrare l’eroe di turno a confrontarsi
contro una minaccia imminente. Tra gli anni ’80 e i ’90 la senilità si
trasforma in vero e proprio oggetto d’indagine filmica. La vecchiaia viene
posta al centro dell’attenzione di chi guarda e, soprattutto, di chi il film lo
pensa. Ne viene studiata la portata esistenziale, simbolica, si indaga la sua
vicinanza alla morte, alla fine di tutto e le reazioni dei personaggi anziani
coinvolti nella narrazione cinematografica a questa condizione. Tra i tanti
titoli che possiamo citare pensiamo a Lynch e al suo The Straight Story o a come Alexander Payne abbia letteralmente
costruito il suo stile e la sua carriera attorno alle vicende esistenziali dei
suoi anziani protagonisti (About Schmidt,
Sideways o Nebraska). In casi più
rari, il “motivo dell’anzianità” è stato sporcato dalla postmodernità e dalla
logica del prelievo, dando vita a prodotti come i due Red, in cui gli anziani di turno sono degli agenti delle forze
speciali richiamati in azione contro la loro volontà per vendicare la morte di
un loro collega. Lo stilema dell’action hero costretto a rientrare in gioco
dalla pensione (stavolta letteralmente) viene dunque spinto all’estremo e
finisce per sclerotizzarsi in battute e tormentoni che ruotano tutti attorno
alla mancanza d’allenamento dei protagonisti, alla corretta somministrazione
delle pillole, alla convivenza in casa di riposo.
Ciò che emerge da questa
carrellata, pur nella sua brevità, è che nel momento in cui il cinema si è
confrontato con il tema dell’anziano e della senilità in generale ha preferito
farlo rimanendo tuttavia all’interno di compartimenti stagni, senza cioè
lasciare interagire liberamente quelle che, di fatto, sono le tensioni che da
sempre animano questa sorta di macrotema. Come si è notato, si è parlato di
senilità e genere cinematografico, di anzianità come momento esistenziale, della
vecchiaia come base per un’indagine narratologica ma non si è mai fatto il
passo ulteriore, non si è ancora tentato, in sostanza, di aprire questi
compartimenti per vedere cosa succede nel momento in cui queste tensioni
vengono lasciate libere di interagire tra loro, è mancato dunque il momento in
cui il cinema ha almeno provato a sviluppare un discorso che fosse veramente
omnicomprensivo sulla vecchiaia, l’occasione in cui, più semplicemente la
visione di un autore ha provato a tirare le somme di una vera e propria “figura
narrativa”, del suo viaggio, delle sue trasformazioni, delle sue implicazioni.
E allora, forse è proprio per
questo che questo pezzo risulta essere così importante, almeno sul piano
teorico: perché serve a sottolineare un cambio nella tendenza che fin qui
abbiamo provato ad indagare, un cambio che, prima che felice, risulta essere
repentino e, forse proprio per questo degno di interesse. Nel giro di un anno,
nel corso del 2018, ben tre pellicole hanno infatti provato a compiere un
discorso davvero completo attorno alla vecchiaia, partendo dalla condizione
esistenziale e arrivando, come si vedrà, ad interrogare e indagare i rapporti
che intercorrono tra essa e il puro discorso cinematografico (la forma, lo
stile, il genere). Tre discorsi almeno in apparenza diversi, agli antipodi, ma
che in realtà, finiscono, sottilmente, per organizzare una profonda
comunicazione tra di loro, un dialogo fatto di intenti, obiettivi comuni,
scelte formali e strutture ricorrenti, un colloquio in cui si rincorrono le
voci di un’esordiente, di un decano e di un giovane autore che sembra operare
all’interno di un cinema che non è più.
The Man Who Killed Hitler And Then Big Foot: Tra Vecchiaia E Fine Del
Genere
L’esordio di Robert D. Krzykowski
è un film che è anche una felice comunione di opposti. Il suo titolo così
didascalico e la trama che sembra voglia inserirsi nella tradizione del Grande
Cinema D’Avventura degli anni ’60 (il veterano americano che ha ucciso Hitler
durante la seconda guerra mondiale viene incaricato dai federali, ormai
anziano, di dare la caccia al Big Foot, che in questo momento sta mietendo
vittime al confine con il Canada), hanno in loro il germe altisonante del
racconto epico ed eroico ma il tono, il registro del progetto di Krzykowski è
straordinariamente crepuscolare: la fotografia è calda, soffusa, il ritmo
dilatato, la recitazione di Sam Elliott è spesso cadenzata, sofferta.
Prevedibilmente il senso del film
è proprio posto all’interno di questo cortocircuito, una collisione che, quasi
fosse quella generata da un sasso in uno stagno, finisce per riverberarsi su
tutto il tessuto filmico.
Tutto potrebbe partire in fondo
dal continuo rifasarsi del racconto.
Dapprima la continuity viene
spezzettata, il passato fa irruzione inaspettatamente nel presente, in un
estremo tentativo di ricostruire l’eroica gioventù del protagonista e,
soprattutto, nel tentativo di restituire allo spettatore la portata della
missione che (come si vedrà) avrebbe dovuto renderlo forse l’uomo più
importante del XX secolo, poi, però, qualcosa sembra rompersi.
I flashback si fanno più rari, ci
si concentra sul presente ma, soprattutto, il centro del racconto finisce per
essere continuamente rifasato. L’omicidio di Hitler viene risolto in una
manciata di minuti e la diegesi preferisce concentrarsi sulla vita da reduce di
Calvin Barr, incapace di ammettere a sé stesso di aver fallito (il vero Hitler
è morto ma la Germania ha agito rapidamente con un piano alternativo facendo
entrare in gioco il sosia del dittatore e dunque nulla è cambiato per le sorti
della guerra), trattato come un dossier da insabbiare insieme a tutta
l’operazione da lui condotta (come si conviene ai fallimenti), abbandonato
dalla donna che amava.
Nei momenti in cui ci si sposta
al presente narrativo, in un’epoca che si intuisce essere a cavallo tra gli
anni ’80 e i primi anni ’90, non sorprende di ritrovare un Calvin apatico,
solitario, silenzioso e depresso, a metà tra l’essere vittima e volontario
prigioniero di una routine che blocca qualsiasi ulteriore iniziativa personale
ma che al contempo gli dà sicurezza, capace di accettare per sé la sola
compagnia di un labrador e refrattario a quasi qualsiasi altro rapporto umano.
Di fronte a questa rappresentazione non bisogna tuttavia lasciarsi ingannare.
Se è vero che The Man Who Killed Hitler
And Then Big Foot si pone come riflessione sulla solitudine dell’anziano,
studiando soprattutto il suo impatto con una società che, almeno
apparentemente, sembra averlo abbandonato, lasciato indietro, tale è la
velocità con cui i valori cambiano e gli schemi comportamentali finiscono per
essere rivoluzionati, basta poco per accorgersi che in realtà ci troviamo di
fronte a quello che è un mero punto di partenza per un ragionamento di ben più
ampio respiro.
Tutto parte, paradossalmente,
ancora una volta da Calvin Barr ma, più precisamente, per approcciarsi al senso
profondo di un progetto del genere, occorre riflettere non tanto sulle
implicazioni legate alla sua identità ma alla portata simbolica del
protagonista della nostra storia. I flashback che raccontano l’operazione
bellica in cui è stato dispiegato Calvin lo presentano infatti come un
personaggio tutto d’un pezzo, straordinariamente coraggioso, addestrato ai
massimi livelli all’uso delle armi e del combattimento corpo a corpo, sicuro di
sé, guidato da un codice di valori che non sarebbe errato definire manicheo. In
Calvin si coagulano spunti e caratteri provenienti da almeno ottant’anni di
cinema d’intrattenimento americano e il personaggio interpretato da Sam Elliott
diventa una sorta di simulacro in cui si incontrano le anime di altri eroi
cinematografici come John Wayne o John Rambo, un’entità composita, anche per
questo smaccatamente finta ma da cui promana al contempo un’autenticità e un
calore straordinari. Una volta fatta chiarezza sulla vera e propria identità
simbolica incarnata da Calvin, appare chiaro quanto la riflessione organizzata
dal film sia tanto esistenziale quanto metacinematografica. L’esordio di
Krzykowsky parte con l’essere uno studio sulla senilità e si precisa con il
procedere della narrazione divenendo una vera e propria elegia dedicata alla
morte dell’Eroe, ancor meglio, dell’Eroe d’Azione Cinematografico.
Il protagonista si ritrova
immerso in una società che non riconosce più come propria ma ora è chiaro che
la sua non è solo solitudine, è più un autoesilio per tutelarsi da un contesto
sociale organizzato attorno a valori che sono agli antipodi rispetto ai suoi e
da cui preferisce allontanarsi prima di smarrirsi completamente. Non è più
tempo per eroi ed eroismi, sembra dirci la diegesi e Calvin Barr sembra essere
una sorta di anomalia che è in attesa di essere individuata ed eliminata dal
sistema.
Proprio la diegesi tuttavia
sembra voler compiere un passo ulteriore, individuando e portando
all’attenzione di chi guarda quell’insabbiamento dell’operazione svolta da Barr
come il vero e proprio momento traumatico su cui si fonda il racconto (e la
riflessione di Krzykowsky).
È in quel momento che, per certi
versi, gli equilibri si sono rotti e in cui il mondo di Calvin Barr ha iniziato
ad andare in pezzi. Per quarant’anni nell’inconscio del protagonista si
sedimentano smarrimento, rabbia e, forse in maggior parte, amarezza nel
riconoscere quanto, avversari e alleati attorno a lui, si muovano su un codice
morale e su dei valori completamente diversi da suoi: il sosia di Hitler, a
detta di Calvin, è un codardo che ha preferito uccidersi piuttosto che
affrontare i suoi avversari a testa alta, le autorità americane non sembrano
più nascondere l’opportunismo che le anima (l’F.B.I. ingaggia Barr trattandolo
ipocritamente come un eroe fingendo di ignorare tutti i danni arrecati all’uomo
da quello stesso governo americano che ha bisogno di lui); il Big Foot, infine,
è la rappresentazione forse più pura e fedele di un nemico che sceglie più o
meno consciamente di cedere ai propri istinti e di abbandonare quell’onore tra
avversari che dovrebbe essere al centro di ogni leale confronto.
Non bisogna mai dimenticare, in
questo senso, quanto il film che stiamo osservando sia di fatto nato da una
continua serie di collisioni tra elementi antitetici e dunque è particolarmente
interessante osservare il momento in cui, proprio nell’ultimo atto, l’arco di
evoluzione del protagonista, la sua ideologia e il contesto socioculturale in
cui è inserito finiscono per impattare con più violenza.
Pur riconoscendo continuamente la
sua natura di animale morente, proprio il momento in cui Barr accetta
l’incarico e va a caccia del Big Foot rappresenta in maniera abbastanza
evidente la volontà di non cedere allo scorrere inesorabile degli eventi. Quasi
come se, proprio in chiusura della sua storia, il protagonista volesse
ricongiungersi ad uno degli archetipi della narrativa, l’eroe romantico, colui
che letteralmente va contro il mondo pur di raggiungere i suoi scopi, Barr
osserva la distruzione del suo mondo personale, riconosce che le radici della
sua identità si stanno sfaldando ma non sembra voler cedere, o almeno (com’è
tradizione), quasi risvegliatosi dopo un lungo torpore, non vuole cedere senza
combattere: tutto l’ultimo atto, oltre il puro racconto, è dunque l’estremo
tentativo del protagonista di rimettere insieme i pezzi di una dimensione che
sta andando in frantumi, contrapponendo i suoi valori personali a quelli errati
della società contemporanea. È così dunque, che Barr accetta l’incarico
affidatogli dall’F.B.I. quasi a voler contrapporre il suo senso del dovere
all’arrivismo e all’ipocrisia degli americani; è così che, nel tentativo di
ristabilire l’onore del duello e dei duellanti, Barr arriva ad uccidere il Big
Foot con un singolo colpo in mezzo agli occhi, facendo durare il suo calvario
il meno possibile e scusandosi con il suo avversario per le sofferenze
arrecategli durante il confronto.
Il vero e proprio discorso
organizzato da Krzykowsky ha l’ampio respiro di un’indagine che da studio sulla
decadenza di un individuo finisce per indagare la fine (e conseguente
trasformazione in qualcosa di diverso) di un medium e di una forma linguistica
a esso relativa. Il medium è il cinema d’avventura d’impianto più o meno
tradizionale e la forma linguistica è quella organizzata attorno agli stilemi
tipici del genere. Come si è intuito, The
Man Who Killed Hitler And Then Big Foot è esso stesso un simulacro di un
modo di fare cinema che non è più, un’entità al tramonto in cui si incontrano
spunti provenienti dal cinema di John Huston, dal War Movie anni ’70, passando
per certo cinema action anni ’80, il settore, a margine, in cui si notano i
prelievi più cospicui dal protagonista che sceglie di autoesiliarsi, al suo
reclutamento per l’ennesima, ultima missione, dall’emersione di certi elementi
grotteschi, quasi fossimo stati catapultati improvvisamente in un B-Movie di
quegli anni, (pensiamo alla realizzazione del mostro), passando per la finta
morte del protagonista nell’epilogo, altro leit motiv del genere.
Lungi dal voler essere una sorta
di coagulato postmoderno a metà tra il fanservice più spicciolo e la
riproposizione gratuita di strutture del passato, la sensazione è che, complice
soprattutto il tono compassato, lento, sofferente della narrazione e
l’atmosfera decadente della pellicola, quasi crepuscolare, più interessata alle
piccole cose, ai dettagli più quotidiani e vicini alla sensibilità dello
spettatore, tutto il sistema finisce per incepparsi fino a stimolare lo straniamento
dello spettatore. Più che una carrellata trionfale, ci troviamo di fronte alla
marcia funebre di un intero modello produttivo, oltreché di un vero e proprio
genere.
The Mule: La Vecchiaia Come Dimensione Mentale
Alcuni commentatori affermano che
il cinema di Clint Eastwood rifletta sulle implicazioni della vecchiaia, della
fine, della decadenza, fin dai tempi di Gunny.
Ed in effetti da quel momento in poi le pellicole del regista americano
cominciano a popolarsi di figure senili, costrette loro malgrado a fare i conti
con l’età che avanza, con le rampanti nuove generazioni pronte a soverchiarle,
con l’andare in pezzi di una dimensione apparentemente famigliare, con quel
“mondo” di simboli e valori che è anche al centro della storia di The Man Who Killed Hitler And Then The Big
Foot: da Unforgiven a A Perfect World passando per Space Cowboys, se è vero che, complice
anche l’età che avanzava, queste narrazioni crepuscolari hanno preso sempre più
piede nella filmografia di Eastwood, forse, è proprio con il suo ultimo
progetto The Mule, che il regista
americano fa un passo in avanti e realizza quella che è, ad oggi, la sua più lucida
(seppur, a tratti, addirittura straripante, come si vedrà), riflessione attorno
alla senilità, una riflessione che, lo si sarà capito se si è letto fino a
questo punto, risulta interessante proprio per la sua prospettiva totalizzante,
che parte dal soggetto dell’indagine fino a portare all’attenzione di chi
guarda anche e soprattutto le trasformazioni che interessano il puro
dispositivo della rappresentazione nel momento in cui è coinvolto in una
narrazione di questo tipo.
Per approcciarsi all’ultimo
progetto di Eastwood, alla sua natura profonda, forse il passo più utile è
indagare quello che potremmo definire come “scarto” nella scrittura e nella
narrazione.
Premessa a tutta l’analisi è
infatti prendere atto di quanto The Mule
prenda le mosse non solo da una storia vera ma anche da una fonte reale e
attestata come l’articolo giornalistico scritto da Sam Dolnick per il New York Times Magazine in cui il
giornalista traccia un profilo completo di Leo Sharp e cerca di analizzare la
straordinaria e improvvisa ascesa dell’anziano appassionato di piante e fiori
rari nel sottobosco criminale dei narcos. The
Mule nasce proprio, tuttavia, come un film sugli scarti, intendendo con
scarti tutte quelle occasioni in cui la diegesi sceglie coscientemente di
ignorare il materiale di partenza, di affrancarsene, per operare negli
interstizi della narrazione, affinché proprio il racconto possa prendere pieghe
impreviste e, soprattutto, affinché proprio la storyline e la caratterizzazione
di Earl Stone (l’alter ego di Eastwood nel
film) diventino vettori del messaggio
alla base del progetto di Eastwood.
Pensiamo, in primo luogo, alla
caratterizzazione del protagonista: Earl Stone è un reduce della Seconda Guerra
Mondiale e della Guerra Di Corea ma, tralasciando per un momento anche la sua
età avanzata è semplicemente troppo addestrato e troppo consapevole dei
meccanismi occulti del traffico di droga per risultare anche solo lontanamente
credibile.
Portiamo la nostra attenzione,
per un attimo, sulla facilità con cui liquida il cane antidroga intento a
perquisire il suo pickup, utilizzando prontamente del sapone per interferire
con il suo olfatto, o riflettiamo sulla sicurezza e sulla freddezza con cui
affronta la polizia per liberare la scorta di narcos incaricata di seguirlo
fino alla destinazione del suo carico.
In secondo luogo la carriera da
narcotrafficante di Leo, pur se perturbata da alcuni elementi che vorrebbero
ricordare, evocare quantomeno, le vere e proprie peripezie con cui dovrebbe
confrontarsi il protagonista (provenienti soprattutto dalla sua sfera privata),
è stranamente priva di scossoni di sorta, dettaglio ancor più strano se si
pensa che l’articolo di Dolnick ci
informa che la sorveglianza della D.E.A. sull’anziano venne organizzata in
tempi relativamente brevi rispetto all’inizio della sua carriera da corriere.
L’ascesa di Earl è dunque una delle più facili del cinema contemporaneo e,
anzi, la diegesi sembra quasi voler rimarcare l’eccezionalità di questa svolta
narrativa nel momento in cui, con un tono tra l’ironico e l’assurdo, si lancia
in una sorta di montaggio a sequenza a mò di climax che sintetizza tutte le
migliorie che Earl ha apportato al suo quartiere, ai luoghi della sua vita
quotidiana, a quel suo mondo personale che lui stesso percepisce andare in
pezzi, investendo i soldi guadagnati con il narcotraffico: ristruttura circolo
dei veterani da lui frequentato, regala elettrodomestici agli amici, estingue
il mutuo della propria casa. Proprio per questo, proprio per il suo sviluppo,
per la scrittura del personaggio di Earl, The
Mule è uno dei film più discussi di Eastwood. Alcuni lo considerano il suo
capolavoro della vecchiaia, altri non riescono ad andare oltre quelle che, in
effetti, risultano essere delle vere e proprie forzature nella scrittura e
nella gestione della storyline, delle semplificazioni forse eccessive di snodi
che avrebbero meritato maggiore attenzione drammaturgica.
La verità, con buona probabilità
sta nel mezzo. The Mule è
effettivamente il film della vecchiaia di Clint Eastwood, ma lo è più per il
modo lucido con cui affronta la questione, per come pone proprio la vecchiaia
al centro del progetto che per la sua effettiva qualità estetica e al contempo,
quegli errori, quelle superficialità in fase di scrittura sono (lo abbiamo
detto, lo ricordiamo) i mattoni con cui il regista costruisce la sua
argomentazione, un’argomentazione che, certo, poteva essere meglio organizzata
(e qui quel riferimento all’esplosività del ragionamento emerso poco fa ci
torna utile) ma che, semplicemente, non può essere ignorata né possono essere
derubricati ad errori quegli spunti che la sviluppano.
Si potrebbe fare, a questo
proposito, un passo indietro e riflettere su quanto, a tratti, il film di Clint
Eastwood, risulti, pur nel suo impianto da film postclassico un prodotto che
cede volutamente più volte ad un’istanza che punti a far dialogare gli
immaginari e dunque ad accogliere nel tessuto filmico prelievi provenienti da
orizzonti di significato differenti. Nella costruzione del suo film Eastwood
guarda profondamente all’intrattenimento di genere coevo e dunque ecco che
nella storyline di Earl cominciano a fare capolino vere e proprie interferenze
provenienti da film del passato (il breve dialogo nella tavola calda, poco
prima della sua cattura, tra il protagonista e l’agente della D.E.A. ricorda il
simile confronto tra Robert De Niro e Al Pacino in Heat) o da serie tv di successo (nella rappresentazione dei narcos,
soprattutto del boss Laton c’è più di un debito con quanto già fatto proprio
dal Narcos di Netflix nel momento in cui ha raccontato il cartello di Sinaloa)
nonché da veri e propri prodotti cult (non è del tutto assurdo assimilare i
primi momenti e soprattutto lo sviluppo della carriera di Earl nel
narcotraffico con l’ascesa ai massimi ranghi del sottobosco criminale del
Walter White di Breaking Bad, un
altro uomo comune costretto, da cause di forza maggiore, a sporcarsi le mani in
modi inaspettati).
Il mondo, la dimensione narrativa
in cui si ambienta The Mule non può
non risultare, malgrado tutti gli sforzi fatti per nasconderlo, artefatto. È
una struttura che, a tratti, lascia emergere non tanto la sua finzione, quanto
piuttosto il suo essere letteralmente generata da uno sguardo, da un punto di
vista. Lo sguardo è, paradossalmente, quello di Earl, attraverso cui lo
spettatore segue praticamente tutta la vicenda e che contribuisce a modellare
una dimensione narrativa pulita, solida, praticamente priva di momenti
traumatici, in cui tutti i contrasti sembrano risolversi per il meglio, un
mondo “privato”, in cui Earl non rischia praticamente mai anche quando le cose si
mettono peggio, in cui l’uomo riesce a muoversi in straordinaria scioltezza
nell’ambiente dei narcos e in cui anche il quasi insanabile conflitto che il
protagonista ha con la sua famiglia, alla fine, risulterà sanato.
Nella dimensione sicura in cui Earl
si è rifugiato anche l’epilogo della sua storia, pur drammatico (sancito, tra
l’altro, da quello sguardo in macchina che segna quasi la rottura di quel
gioco, di quella conversazione privata che finora ha avuto con noi spettatori)
non evita di lasciar trasparire una luce ottimistica a illuminare la vicenda,
quasi che questa “narrazione seconda” non voglia ammettere pienamente la sua
condizione di scacco.
È una lettura della vecchiaia,
quella che si struttura da The Mule, che
sembra dare per scontato e anzi considerarla una vera e propria premessa
metodologica la solitudine e quasi l’estraneità al Mondo dell’anziano. A
differenza però dell’opinione comune, per Eastwood questo distacco dalla
società contemporanea non è tanto l’inizio della fine, l’inizio della decadenza
quanto il prodromo ad un nuovo modo di affrontare la vita proprio per
l’anziano. Ormai distaccato dal mondo, dalla società, piuttosto che accettare
di far parte di un contesto a cui sa di non appartenere, finisce per piegare
quella stessa realtà a suo piacimento, trovando rifugio in uno spazio mentale
sicuro, addirittura controllabile. Per Earl la ricerca di uno spazio che sia a
sua misura si traduce in una narrazione che scorre solida dall’inizio alla fine,
una storia di cui sembra essere non solo protagonista ma anche unico narratore
ma, più in piccolo, questa stessa dimensione mentale può essere ritrovata nella
routine in cui spesso proprio gli anziani finiscono intrappolati.
Due sono però gli elementi che
risaltano in questo senso, riflettendo sul modo in cui Eastwood indaga la
vecchiaia attraverso il suo personaggio: in primo luogo, per Eastwood l’anziano
diventa un outsider, una scheggia impazzita bloccata in una realtà alternativa
per sfuggire ciò con cui non vuole confrontarsi esattamente come outsider è
Earl, che viene scelto come corriere proprio per la sua lontananza dal mondo
del narcotraffico; successivamente torna prepotentemente, in ambito
argomentativo, il ruolo del cinema, qui utilizzato, nuovamente, come elemento
costruttivo di un immaginario alternativo, come centro nevralgico delle
argomentazioni e del discorso sotteso a The
Mule, oltreché come terreno su cui finisce per consumarsi uno straordinario
cortocircuito tra persona rappresentata, personaggio e categoria indagata dalla
pellicola.
The Old Man And The Gun: La Vecchiaia E L’Arte Della Fuga
In ultimo, il film più “piccolo”
ma al contempo forse il più interessante del trittico. Anche The Old Man prende le mosse da un fatto
di cronaca: Forrest Tucker è un abilissimo rapinatore di banche ed artista
dell’evasione che tra gli anni ’80 e i primi anni ’90, alla soglia dei
sessant’anni, si lancia in una serie di rapine nei maggiori istituti di credito
americani, utilizzando una sorta di strategia dell’understatement, mantenendo
cioè un basso profilo, un atteggiamento garbato con cassieri e direttori e,
soprattutto, non estraendo mai la pistola, preferendo mostrare il solo
rigonfiamento dell’arma a contatto con la giacca e affidandosi alla minaccia e
allo spavento che ne consegue per garantirsi la collaborazione degli impiegati.
Forrest Tucker è un ladro gentiluomo dunque, un malvivente d’altri tempi
proveniente da un momento storico che non esiste più ed in effetti il film
dedicato alla sua storia finisce per essere gestito come un prodotto
cinematografico degli anni ’70, proveniente dalle scene della New Hollywood,
utilizzando dunque uno stile, un approccio al visivo che non potrebbe essere
più lontano dalla patinatura di cui è rigonfio il cinema contemporaneo.
Vero, la forma filmica, in questo
caso, potrebbe porsi in risonanza con il momento storico in cui la storia è
ambientata (un decennio ’80 in cui tuttavia si sentono ancora molto forti gli
influssi degli anni ’70) o potrebbe addirittura risultare come un oggetto
anomalo, a metà tra la citazione e l’omaggio all’ultima performance di Robert
Redford, che proprio negli anni ’70 raggiunse l’apice della sua popolarità ma
forse c’è ben altro, sotto la superficie delle cose.
Con buona probabilità proprio
riflettere sulla forma cinematografica che sostiene l’opera seconda di David
Lowery è il primo passo per comprendere le radici e la natura delle riflessioni
che il regista dedica alla vecchiaia, utilizzando proprio il film come chiave
di volta.
Ed in effetti, particolarmente
utile in questo senso è proprio notare quanto il modo di vivere la vecchiaia di
Tucker sia diverso dall’atteggiamento degli altri protagonisti analizzati
finora. Tucker sa di essere vecchio ma non sembra arrendersi allo scorrere
degli eventi, piuttosto, cerca costantemente di sfuggirgli, di sfuggire al
tempo e alla stasi come fa con la polizia dopo ogni rapina e con buona
probabilità proprio attraverso le rapine, il rischio, l’adrenalina, le
evasioni, ricerca e rinnova quel costante desiderio di libertà ma anche di
stupore, di meraviglia (soprattutto perché ogni rapina, per lui, in termini
emotivi, sembra essere come la prima).
Tucker è un cowboy solitario, un
uomo in costante fuga che vive per il rischio e l’avventura a tutti i costi e
che, quasi romanticamente, non può restare mai troppo lontano da
quell’illegalità che lo fa sentire così vivo e dunque, a questo punto, è chiaro
che, per raccontare la storia di un uomo così profondamente libero, così
desideroso di rimanere al di fuori di schemi precostituiti, al di fuori delle
categorie che la società gli impone, forse lo stile della New Hollywood,
quell’approccio al filmico nato da una congrega di outsiders pronti a
ribellarsi alle regole precostituite di Hollywood per trovare un loro stile e
un loro posto nella scena artistica di quegli anni. Il cinema diventa dunque il
vettore e quasi il correlativo oggettivo con cui Lowery dà la sua personale
lettura della vecchiaia, che per il cineasta (e attraverso l’interpretazione di
Robert Redford) può essere assimilabile a una mera convenzione sociale imposta
prima di tutto dall’esterno che percepita dagli interessati, un’entità a metà
tra il liquido e il vischioso, che potrebbe essere costantemente in agguato per
aggredirci ma che possiamo allontanare facilmente con un semplice gesto, una
spinta, una scarica di adrenalina.
Attraverso la regia e la
scrittura, tuttavia, l’argomentazione sembra compiere un passo ulteriore: la
dimensione cinematografica non sembra solo sostanziare il mondo in cui si muove
Tucker, che dunque si pone in perfetta risonanza con il suo essere, ma pare
guidare anche i suoi gesti, le sue azioni ed essere alla base della sua
psicologia.
Alla base della macchina cinema
ci sono infatti, da sempre, l’illusione e l’inganno, esattamente gli stessi
strumenti prediletti da Forrest Tucker per organizzare le sue rapine. Il
protagonista della storia, lo abbiamo già detto, agisce e si presenta agli
altri come un gentiluomo di altri tempi e proprio questa sua alterità rispetto
al contesto a lui contemporaneo è, di fatto, il primo strumento d’inganno posto
in campo da Tucker per ottenere la fiducia, l’attenzione dei presenti o anche
solo per sedurre (con l’andare avanti della storia) il suo interesse
sentimentale mantenendo segreta la sua identità di malvivente.
Al contempo alla base della sua
strategia per rapinare le banche c’è proprio l’inganno, l’illusione legata alla
presenza di una pistola carica la cui reale esistenza tuttavia nessuno dei
coinvolti (direttori o cassieri che siano) potranno mai confermare pienamente.
E dunque proprio il fare leva su quest’inganno, sulla credenza legata
all’esistenza di qualcosa che in realtà non esiste o che probabilmente appare
ben diverso da com’è in realtà non può non essere un comportamento legato a
doppio filo con quella dimensione cinematografica evocata dal progetto di
Lowrey.
Tucker, in effetti, si sta
comportando né più né meno che come un esperto di effetti speciali impegnato a
far credere ai presenti che ciò che stanno vedendo è reale quando in realtà
(forse) non lo è. Si potrebbe, tuttavia, addirittura compiere un passo indietro
in questo senso: lo abbiamo visto, al centro di The Old Man And The Gun grande importanza ricoprono sentimenti e
sensazioni quali lo stupore, l’inganno, la costante ricerca della meraviglia,
del sense of wonder e dunque non sarebbe troppo sbagliato tracciare un fil
rouge che connetta il progetto di Lowrey con quell’epoca primigenia, quel
precinema che aveva al suo centro gli stessi elementi che sembrano sostanziare The Old Man And The Gun.
Alessio Baronci
Alessio Baronci














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